Uomo di Dio, amico dell’Africa
Il viaggio di Benedetto XVI in Benin raccontato da un testimone: il sostituto della Segreteria di Stato Angelo Becciu. Dall’Osservatore Romano
Due anni fa, quando era nunzio apostolico in Angola, accolse Benedetto XVI in occasione del suo primo viaggio in Africa. Oggi, da sostituto della Segreteria di Stato, lo ha accompagnato durante la visita in Benin.
Un «singolare privilegio» che fa dell’arcivescovo Giovanni Angelo Becciu un testimone autorevole di questa seconda esperienza pastorale vissuta dal Pontefice in terra africana. Il presule ne racconta impressioni e sensazioni in questa intervista a chi scrive e al direttore del nostro giornale.
Sia pure con ruoli diversi, lei è stato al fianco di Benedetto XVI in entrambi i viaggi apostolici compiuti in Africa. Quali sensazioni ha provato?
«In effetti ho avuto questo duplice privilegio e i ricordi sono legati a una sensazione bellissima. In Angola ho vissuto il periodo di preparazione al suo arrivo con grande trepidazione. C’era da organizzare ogni minimo particolare perché tutto si svolgesse nel miglior modo possibile. La tensione era comprensibile. Poi però tutto è svanito appena il Papa è arrivato. La gioia ha preso il sopravvento quasi subito ed è andata crescendo in ogni momento vissuto accanto a lui, grazie anche all’entusiasmo che egli suscitava nella gente. Quando è arrivato il momento della partenza, ho condiviso quella sensazione di vuoto che, devo riconoscere, ha assalito un po’ tutti gli angolani».
Avrebbe mai pensato, in quei momenti, che di lì a poco il Papa l’avrebbe chiamata a Roma?
«Assolutamente no. Ho sempre continuato a servire il Papa e la Chiesa laddove sono stato destinato. Dunque, ho proseguito la mia missione ancora per qualche mese in Angola, poi a Cuba. Naturalmente mi sono sentito onorato di essere chiamato a collaborare con lui più da vicino come sostituto. E proprio questo incarico mi ha offerto l’occasione di seguirlo in questo secondo viaggio. Rispetto all’esperienza vissuta in Angola, devo dire che stavolta ero meno carico di responsabilità e, dunque, più «leggero». Ho avuto modo di partecipare ancor più profondamente ai diversi avvenimenti, ho anche potuto pregare di più. Diciamo che ho potuto godere ancor di più della missione pastorale del Papa».
Quale percezione ha avuto del rapporto di Benedetto XVI con l’Africa?
«Rispetto all’Angola, ho potuto confermare e consolidare la percezione di quanto gli africani amino il Papa. In lui vedono realmente un uomo di Dio: l’uomo di Dio che viene a trovarli, a benedirli, a incoraggiarli. Lo vedono soprattutto come un amico. Mi sono chiesto come mai tanti africani scendono per le strade quando c’è il Papa tra di loro. Chi non conosce l’anima africana potrebbe credere che è loro costume acclamare un ospite, chiunque egli sia. Lo posso escludere per esperienza diretta. Ho visto arrivare capi di Stato e personaggi importanti, ma non ho mai visto un’accoglienza simile. È la naturale religiosità degli africani che li porta a vedere nel Pontefice l’uomo di Dio. Penso a quanto mi confidò in Nigeria un ambasciatore musulmano: «Si ricordi che il Papa non viene solo per voi cattolici. Viene per noi tutti, per tutti gli africani che lo considerano come un padre: il padre di tutta l’umanità». Anche in questi giorni tanti fedeli di altre chiese e confessioni religiose hanno attivamente partecipato alla festa. Il nunzio apostolico Blume mi diceva che dai musulmani ha ricevuto tante manifestazioni di adesione. Gli africani vedono nel Pontefice l’uomo che si fa portavoce delle loro sofferenze e delle loro necessità davanti al mondo, al di là di ogni cultura o credo religioso. Lo sentono realmente come un amico».
Proprio a Cotonou il gran cancelliere del Benin, la signora Koubourath Osseni, che è musulmana, lo ha salutato come «un amico vero dell’Africa e degli africani».
«Non è possibile non riconoscerlo come tale dopo aver ascoltato le sue parole. Come già fece in Angola, anche in questi giorni il Papa ha pronunciato discorsi coraggiosi. E ha invitato gli africani a essere, a loro volta, coraggiosi nel difendere la speranza, esortando al tempo stesso governanti e uomini politici a non deludere questa speranza. Ha ricordato che di promesse ne sono state fatte tante, ma ora è giunto il momento di dare loro un seguito».
Nel suo primo discorso il Papa ha chiesto agli africani di non temere la modernità, ma piuttosto di avvicinarsi a essa restando saldamente ancorati alla ricchezza del loro passato.
«Per far comprendere il significato profondo di questo invito del Papa, andrei con il pensiero ad alcuni anni fa, quando in Europa si cominciava a proporre con insistenza — almeno da parte di alcune correnti di pensiero — certi modelli culturali difformi dai valori evangelici. Di fronte a queste proposte, gli africani restavano allibiti. Dico questo per far capire come nell’anima degli africani vi siano valori forti ai quali non possono rinunciare. E se gli offriamo certi modelli, stentano a seguirci».
Il Papa ha voluto sottolineare in modo particolare, tra questi valori, quello della famiglia. Ma in Africa la famiglia appare una realtà debole. Come mai?
«La causa principale è lo stato di crisi in cui vivono gli africani. La mancanza di valide opportunità per garantire stabilità economica ha le sue ricadute più pesanti sui nuclei familiari. L’uomo ne approfitta e costringe la donna a lavorare, a volte anche al proprio posto. Ciò porta le donne fuori casa per la maggior parte della giornata: e così i figli restano soli e senza orientamenti. Per non parlare delle ragazze madri, abbandonate a se stesse, con i figli da crescere e accudire. Spesso questa situazione le porta a rivolgersi ad altri uomini, che le offrono, se non altro, la possibilità di sopravvivere. Senza contare il contesto generale della cultura africana, che è piuttosto incline alla poligamia. Questa è una delle prime sfide che affronta il cristianesimo. In Africa — è bene non dimenticarlo — la monogamia è nata con la prima evangelizzazione. Dove il cristianesimo è riuscito a penetrare, ha difeso il valore della famiglia e ancora oggi lo difende con efficacia».
Perché il Papa ha invitato a non considerare il cristianesimo come «un sistema europeo» ma come «un messaggio universale»?
«Credo che abbia voluto specificare che il Vangelo non è riducibile a nessuna dimensione geografica, tanto meno a quella europea. Del resto, lo sforzo dei missionari è proprio quello di liberare questo messaggio da ogni vincolo, per consentire agli africani l’innesto nella loro cultura. E direi che i frutti di questo prezioso lavoro si vedono, soprattutto nelle liturgie. Il vero pericolo è rappresentato dalle sette. Sono numerose e si diffondono a macchia d’olio. Propongono modelli molto più semplici da seguire, basati sul formalismo, sull’esteriorità. Fanno adepti anche perché gli africani amano partecipare alle liturgie con le loro espressioni tipiche, i loro canti, le loro danze: è un modo per dare libero sfogo allo spirito gioioso che li fa sentire parte integrante della stessa liturgia».
Lo scorso anno in molti Stati africani è stato celebrato mezzo secolo di indipendenza. Si può tentare un bilancio di questi anni?
«Il bilancio dell’indipendenza può essere racchiuso in un dato preciso. Gli africani hanno avvertito chiaramente l’orgoglio di sentirsi artefici del loro futuro. Nello stesso tempo, però, si sono scoperti impreparati per farlo. Sono iniziate così le rivalità tribali che hanno provocato tante guerre fratricide. Questo è il vero dramma del continente. Purtroppo si contano decine di Paesi dilaniati da lotte intestine. Sulle quali si sono poi innestati interessi internazionali che hanno completato l’opera disgregatrice».
L’esortazione apostolica post-sinodale Africae munus è un documento molto scorrevole, concreto e anche molto denso. Come crede che sarà accolto?
«Certamente con entusiasmo. Soprattutto perché propone speranza. Insiste molto sulla speranza. E io credo che l’Africa, dopo tante illusioni, tante promesse disattese e tante offese alla sua dignità, ha capito che può fare affidamento sulla Chiesa. Ha compreso che non deve lasciarsi andare allo scoramento ma deve reagire trovando in se stessa la forza per andare avanti».
Nel documento il Papa insiste molto sulla piaga dell’analfabetismo.
«È un forte richiamo rivolto soprattutto ai tanti Paesi che impegnano le proprie risorse per armarsi piuttosto che per istruire i cittadini. La Chiesa ha fatto e continua a fare tanto in questo senso. Fin dall’inizio i missionari hanno edificato le chiese ma, accanto a esse, hanno costruito anche le scuole. E questo la dice lunga su quanto la Chiesa punti alla formazione per aiutare l’Africa a uscire dall’isolamento. Dove non si riesce a costruire scuole, ci pensano i missionari, le suore, i catechisti a istruire i ragazzi, magari tra i banchi sistemati sotto gli alberi, all’aperto».
Continua a essere importante la presenza dei missionari in Africa.
«Non solo importante ma necessaria per aiutare una Chiesa giovane, che non ha la solidità delle altre comunità radicate sul territorio da secoli. Non a caso il Papa chiede ai cattolici un rinnovato impegno nella missione ad gentes. Ma, al contempo, rivolge un invito anche alla Chiesa in Africa perché mandi missionari nel mondo, soprattutto nelle terre di antica evangelizzazione. E questo mi pare molto bello».
Un «singolare privilegio» che fa dell’arcivescovo Giovanni Angelo Becciu un testimone autorevole di questa seconda esperienza pastorale vissuta dal Pontefice in terra africana. Il presule ne racconta impressioni e sensazioni in questa intervista a chi scrive e al direttore del nostro giornale.
Sia pure con ruoli diversi, lei è stato al fianco di Benedetto XVI in entrambi i viaggi apostolici compiuti in Africa. Quali sensazioni ha provato?
«In effetti ho avuto questo duplice privilegio e i ricordi sono legati a una sensazione bellissima. In Angola ho vissuto il periodo di preparazione al suo arrivo con grande trepidazione. C’era da organizzare ogni minimo particolare perché tutto si svolgesse nel miglior modo possibile. La tensione era comprensibile. Poi però tutto è svanito appena il Papa è arrivato. La gioia ha preso il sopravvento quasi subito ed è andata crescendo in ogni momento vissuto accanto a lui, grazie anche all’entusiasmo che egli suscitava nella gente. Quando è arrivato il momento della partenza, ho condiviso quella sensazione di vuoto che, devo riconoscere, ha assalito un po’ tutti gli angolani».
Avrebbe mai pensato, in quei momenti, che di lì a poco il Papa l’avrebbe chiamata a Roma?
«Assolutamente no. Ho sempre continuato a servire il Papa e la Chiesa laddove sono stato destinato. Dunque, ho proseguito la mia missione ancora per qualche mese in Angola, poi a Cuba. Naturalmente mi sono sentito onorato di essere chiamato a collaborare con lui più da vicino come sostituto. E proprio questo incarico mi ha offerto l’occasione di seguirlo in questo secondo viaggio. Rispetto all’esperienza vissuta in Angola, devo dire che stavolta ero meno carico di responsabilità e, dunque, più «leggero». Ho avuto modo di partecipare ancor più profondamente ai diversi avvenimenti, ho anche potuto pregare di più. Diciamo che ho potuto godere ancor di più della missione pastorale del Papa».
Quale percezione ha avuto del rapporto di Benedetto XVI con l’Africa?
«Rispetto all’Angola, ho potuto confermare e consolidare la percezione di quanto gli africani amino il Papa. In lui vedono realmente un uomo di Dio: l’uomo di Dio che viene a trovarli, a benedirli, a incoraggiarli. Lo vedono soprattutto come un amico. Mi sono chiesto come mai tanti africani scendono per le strade quando c’è il Papa tra di loro. Chi non conosce l’anima africana potrebbe credere che è loro costume acclamare un ospite, chiunque egli sia. Lo posso escludere per esperienza diretta. Ho visto arrivare capi di Stato e personaggi importanti, ma non ho mai visto un’accoglienza simile. È la naturale religiosità degli africani che li porta a vedere nel Pontefice l’uomo di Dio. Penso a quanto mi confidò in Nigeria un ambasciatore musulmano: «Si ricordi che il Papa non viene solo per voi cattolici. Viene per noi tutti, per tutti gli africani che lo considerano come un padre: il padre di tutta l’umanità». Anche in questi giorni tanti fedeli di altre chiese e confessioni religiose hanno attivamente partecipato alla festa. Il nunzio apostolico Blume mi diceva che dai musulmani ha ricevuto tante manifestazioni di adesione. Gli africani vedono nel Pontefice l’uomo che si fa portavoce delle loro sofferenze e delle loro necessità davanti al mondo, al di là di ogni cultura o credo religioso. Lo sentono realmente come un amico».
Proprio a Cotonou il gran cancelliere del Benin, la signora Koubourath Osseni, che è musulmana, lo ha salutato come «un amico vero dell’Africa e degli africani».
«Non è possibile non riconoscerlo come tale dopo aver ascoltato le sue parole. Come già fece in Angola, anche in questi giorni il Papa ha pronunciato discorsi coraggiosi. E ha invitato gli africani a essere, a loro volta, coraggiosi nel difendere la speranza, esortando al tempo stesso governanti e uomini politici a non deludere questa speranza. Ha ricordato che di promesse ne sono state fatte tante, ma ora è giunto il momento di dare loro un seguito».
Nel suo primo discorso il Papa ha chiesto agli africani di non temere la modernità, ma piuttosto di avvicinarsi a essa restando saldamente ancorati alla ricchezza del loro passato.
«Per far comprendere il significato profondo di questo invito del Papa, andrei con il pensiero ad alcuni anni fa, quando in Europa si cominciava a proporre con insistenza — almeno da parte di alcune correnti di pensiero — certi modelli culturali difformi dai valori evangelici. Di fronte a queste proposte, gli africani restavano allibiti. Dico questo per far capire come nell’anima degli africani vi siano valori forti ai quali non possono rinunciare. E se gli offriamo certi modelli, stentano a seguirci».
Il Papa ha voluto sottolineare in modo particolare, tra questi valori, quello della famiglia. Ma in Africa la famiglia appare una realtà debole. Come mai?
«La causa principale è lo stato di crisi in cui vivono gli africani. La mancanza di valide opportunità per garantire stabilità economica ha le sue ricadute più pesanti sui nuclei familiari. L’uomo ne approfitta e costringe la donna a lavorare, a volte anche al proprio posto. Ciò porta le donne fuori casa per la maggior parte della giornata: e così i figli restano soli e senza orientamenti. Per non parlare delle ragazze madri, abbandonate a se stesse, con i figli da crescere e accudire. Spesso questa situazione le porta a rivolgersi ad altri uomini, che le offrono, se non altro, la possibilità di sopravvivere. Senza contare il contesto generale della cultura africana, che è piuttosto incline alla poligamia. Questa è una delle prime sfide che affronta il cristianesimo. In Africa — è bene non dimenticarlo — la monogamia è nata con la prima evangelizzazione. Dove il cristianesimo è riuscito a penetrare, ha difeso il valore della famiglia e ancora oggi lo difende con efficacia».
Perché il Papa ha invitato a non considerare il cristianesimo come «un sistema europeo» ma come «un messaggio universale»?
«Credo che abbia voluto specificare che il Vangelo non è riducibile a nessuna dimensione geografica, tanto meno a quella europea. Del resto, lo sforzo dei missionari è proprio quello di liberare questo messaggio da ogni vincolo, per consentire agli africani l’innesto nella loro cultura. E direi che i frutti di questo prezioso lavoro si vedono, soprattutto nelle liturgie. Il vero pericolo è rappresentato dalle sette. Sono numerose e si diffondono a macchia d’olio. Propongono modelli molto più semplici da seguire, basati sul formalismo, sull’esteriorità. Fanno adepti anche perché gli africani amano partecipare alle liturgie con le loro espressioni tipiche, i loro canti, le loro danze: è un modo per dare libero sfogo allo spirito gioioso che li fa sentire parte integrante della stessa liturgia».
Lo scorso anno in molti Stati africani è stato celebrato mezzo secolo di indipendenza. Si può tentare un bilancio di questi anni?
«Il bilancio dell’indipendenza può essere racchiuso in un dato preciso. Gli africani hanno avvertito chiaramente l’orgoglio di sentirsi artefici del loro futuro. Nello stesso tempo, però, si sono scoperti impreparati per farlo. Sono iniziate così le rivalità tribali che hanno provocato tante guerre fratricide. Questo è il vero dramma del continente. Purtroppo si contano decine di Paesi dilaniati da lotte intestine. Sulle quali si sono poi innestati interessi internazionali che hanno completato l’opera disgregatrice».
L’esortazione apostolica post-sinodale Africae munus è un documento molto scorrevole, concreto e anche molto denso. Come crede che sarà accolto?
«Certamente con entusiasmo. Soprattutto perché propone speranza. Insiste molto sulla speranza. E io credo che l’Africa, dopo tante illusioni, tante promesse disattese e tante offese alla sua dignità, ha capito che può fare affidamento sulla Chiesa. Ha compreso che non deve lasciarsi andare allo scoramento ma deve reagire trovando in se stessa la forza per andare avanti».
Nel documento il Papa insiste molto sulla piaga dell’analfabetismo.
«È un forte richiamo rivolto soprattutto ai tanti Paesi che impegnano le proprie risorse per armarsi piuttosto che per istruire i cittadini. La Chiesa ha fatto e continua a fare tanto in questo senso. Fin dall’inizio i missionari hanno edificato le chiese ma, accanto a esse, hanno costruito anche le scuole. E questo la dice lunga su quanto la Chiesa punti alla formazione per aiutare l’Africa a uscire dall’isolamento. Dove non si riesce a costruire scuole, ci pensano i missionari, le suore, i catechisti a istruire i ragazzi, magari tra i banchi sistemati sotto gli alberi, all’aperto».
Continua a essere importante la presenza dei missionari in Africa.
«Non solo importante ma necessaria per aiutare una Chiesa giovane, che non ha la solidità delle altre comunità radicate sul territorio da secoli. Non a caso il Papa chiede ai cattolici un rinnovato impegno nella missione ad gentes. Ma, al contempo, rivolge un invito anche alla Chiesa in Africa perché mandi missionari nel mondo, soprattutto nelle terre di antica evangelizzazione. E questo mi pare molto bello».