Uno zoo casalingo
«Uno dei pezzi forti del Palazzo dei mutilati era l’aspetto faunistico». I ricordi di un nipote.
Se andare in “casa dei nonni” evocherà in molti atmosfere idilliache, per noi significava accedere alla più allegra e creativa tribù che un bambino potesse desiderare. Forse l’idillio non era sempre di casa, lo ammettiamo. Ma lo spettacolo non mancava mai.
A cominciare – ci assicurano – dalle pittoresche riunioni di quel condominio nella Livorno degli anni Trenta, un gran palazzone creato per chi aveva pagato il suo caro prezzo alla patria, nella Grande guerra. Entrambi i nostri nonni erano infatti rispettivamente proprietari di un avambraccio spappolato da una granata e di una gamba “inteccherita” dopo un colpo di moschetto. Due personaggi notevoli, ma in ottima compagnia, visto che per far parte di quel club qualcosa di leso si doveva pur avere. Non per nulla era detto “Palazzo dei mutilati”.
Uno dei pezzi forti era l’aspetto faunistico. «No! I serpenti non si uccidono. Sono anch’esse creature di Dio!», sentenziò un giorno, con tono autorevole, la nonna Mary. «Macché! Sono viscidi esseri da eliminare, datemi la scopa che ci penso io, alle creature di Dio!», replicò la suocera Carolina, con tono di voce udibile nel raggio di un chilometro. In una normale famiglia di quei tempi, ritrovare due bei serpenti attorcigliati alla lampada di sala avrebbe suscitato l’unica reazione ragionevole: spavento, e poi sarebbe iniziata la caccia al rettile. Ma qui non tutto era normale, visto che i serpenti non erano entrati ma abitavano già in casa, amorevolmente allevati dall’ultimogenito Enrico. Inoltre c’era la faccenda della controversia teologica tra la nonna Mary e la suocera Carolina. La nonna, terziaria francescana, riteneva che ogni animale fosse creatura di Dio, da proteggere e amare. La suocera invece era terziaria domenicana e – non chiedetemi perché – pur ammettendo che le bestie fossero certamente create dal buon Dio, le pensava soprattutto ottime per farne salame, per finire sullo spiedo, al salmì, arrosto, ecc. Nel caso dei serpenti, mentre il piccolo Enrico s’ingegnava al recupero dell’orbettino e del biacco (questi i nomi scientifici, ma credo avessero anche nomi di battesimo), il nonno, austero colonnello, in precario equilibrio tra moglie, madre, figli e altri animali, decretò l’ennesimo ultimatum: «O fuori loro o fuori lui!». Ma anche quella volta ritennero più opportuno tenersi il figlio.
Prima comunione della primogenita Giovanna. L’enorme gatto di casa si era messo a passeggiare sulla tavola imbandita a festa, leccando e assaggiando quanto più poteva. Scattò la solita difesa d’ufficio della nonna, ma stavolta il sanguigno colonnello – oltremodo su di giri per l’ennesima spiegazione filosofica –, per salvare la situazione prima che gli ospiti arrivassero, mise in atto una strategia a sorpresa, tipo attacco alla baionetta sul Carso. Blandì il felino portandolo sul terrazzo e poi, con nonchalance, lo volò di sotto.
Una volta fu comprata un’oca (siamo nel dopoguerra, fame residua, poca roba da mangiare). Di solito un’oca si acquista e s’ingrassa per poi cucinarsela, oppure per ricavarne dal suo fegato lo squisito paté de foie gras. Ma qui – ricordate? – la parola normalità non sempre era di casa. Inoltre la giovane papera doveva essere effettivamente simpatica, e così mentre la fase dell’ingrasso funzionò a dovere, si sviluppò per essa un tale incondizionato affetto per cui, di procedere alla fase due (cottura), nemmeno a parlarne. Il resto lo immaginate. «O l’oca o voi!», ruggiti del colonnello, ecc. Ma quella volta il fronte animalista vinse, e prevalse la linea “l’oca & tutti noi”. Oca che crebbe ancora di più, disseminò cacca per ogni dove, divenne il beniamino di casa e morì di vecchiaia, sotterrata in giardino come un cristiano. L’unico fegato che s’ingrossò indovinate di chi fu?
La love story con gli animali proseguì anche quando fummo noi a razzolare in quella casa. Per quanto possiamo ricordare
furono francescanamente allevati passeri, civette, un gufo, un ramarro, pesci di mare, granchi, rane. E soprattutto coleotteri e affini, in quantità industriale. Perché nel frattempo l’ultimogenito Enrichino, ormai iscritto ad Agraria, aveva sviluppato per gli insetti una passione viscerale – diverrà valente entomologo – per cui negli anni furono indisturbati ospiti mantidi religiose, colonie di formiche, scarabei stercorari, cetonie, cerambici, insetti stecco.
Al posto dello spaventa-passeri in giardino era stato approntato un servizio salva-passeri, azione Lipu ante litteram. Quando implumi cadevano dal nido, i fortunati pennuti venivano ingozzati con molliche di pane e altri intrugli. Grazie all’imprinting (teoria che non sapevamo fosse stata teorizzata da Konrad Lorenz, ma funzionava, eccome) il passero di turno scambiava tutti noi per madri. Ci seguiva, volava per casa, a pranzo girellava sulla tavola rubando briciole di pane e bevendo da un piattino. Una volta cresciuti, i passeri venivano piazzati sul terrazzo a mo’ di piattaforma di lancio, e se ne volavano via. Uno dei più assidui si sentiva così di famiglia che imparò a fumare, nel senso che sapeva portare nel becco una sigaretta accesa, volando. Uno spasso! Quando arrivò il giorno della libertà, fu l’unico che per molto tempo ancora bussava ai vetri. Ma la libertà va incoraggiata, e non gli fu mai aperto. Doveva imparare a vivere per suo conto. E anche a smettere di fumare a sbafo, aggiunse una delle zie, pasionaria (e fumatrice).
Se capitava di vedere nella vasca del bagno una gara di salto tra rane, nessuno batteva ciglio. Per i granchi, abitare in un vaso d’acqua di mare era una villeggiatura, foraggiati com’erano di patelle raccolte da noi sulla spiaggia. Uno imparò anche il bon ton: con la chela sinistra teneva il mollusco come fosse un piattino da dessert e con la destra “spilluzzicava” il contenuto.
E la storia dei bruchi? Lo zio entomologo ne allevò a decine, fino al momento emozionante dell’uscita della farfalla dal bozzolo. Che gioia per il colonnello vedersi la casa invasa dai bruchi di quella farfalla notturna, la Saturnia pyri, che seminavano cacatelle identiche – come i meno giovani ricorderanno – alle pasticche di Resoldor! E che apice toccò quando un giorno le cacatelle, per scherzo sostituite davvero alle pasticche di Resoldor, furono offerte da noi nipoti ad alcuni ignari ospiti. Quando il nonno cominciò ad andare a pescare e a dipingere en plein air, qualcuno si chiese il perché di quelle sue nuove passioni. No, quella non era per il colonnello una fuga da codardi, come certe male lingue sostenevano: era una terapia, era la sua sana alternativa a gesti inconsulti.