Uno spettacolo continuo

La prima rassegna monografica dal 1937. Quaranta opere del visionario pittore veneziano.
Santa Maria Egiziaca

Pietro Aretino, letterato amico dei potenti, aveva denigrato un suo quadro. Jacopo de’ Robusti, detto il Tintoretto dal mestiere del padre, lo invitò a casa. Chiuse la porta, gli puntò un coltello al petto. Il giorno dopo Pietro gli scrisse una lettera – pubblica – dolcissima. Questo era l’uomo: deciso, e pure meditabondo, solitario, gran lavoratore nella bottega con i figli. Tiziano (per conto del quale agiva l’Aretino) non poté disfarsi del geniale concorrente, come gli era riuscito con Lotto, Pordenone e Sebastiano del Piombo. Jacopo era determinato, aveva intuizioni fulminee che esprimeva con una pittura rapida: scenografie immense, luci elettrizzanti a creare storie di una umanità dinamica. Vorticosa. Aveva sbalordito i veneziani quando nel 1548, a ventinove anni, aveva presentato Il miracolo di san Marco: un colpo di teatro astuto, col santo in picchiata a soccorrere lo schiavo, la folla stupefatta e un colore “manierista”, cioè cerebrale, guizzante. Molto lontano dalle pennellate calde di un Tiziano.

 

 Ma era capace anche di momenti delicati, elegiaci. Susanna e i vecchioni del 1557 è uno degli amati soggetti biblici. Tintoretto sembra prendersi una pausa: il colore esalta il corpo della donna, scivola su sete e monili, fa sentire il brivido dell’acqua. La luce naturale che proviene dal giardino intorno dona liricità al brano e spiana la fronte dei due anziani, quei vecchi indomabili cari all’arte tintorettesca. Ne abbiamo un esempio nella galleria – non molto folta – di ritratti eseguiti dall’artista. Il Ritratto di Jacopo Soranzo (1550) è forse il suo capolavoro nel genere. Il vecchio manifesta ancora una incredibile energia negli occhi scrutatori e in quell’abito damascato che il pennello fulmina di rossi, finendo nella barba soffice. Più che un ritratto, una apparizione.

 

Ed è qui che si arriva al cuore del Tintoretto, alla sua poesia visionaria e teatrale che lo rende simile, sotto diversi aspetti, all’arte contemporanea del Greco. Come questi, Jacopo esprime il clima controriformista del tempo, il bisogno di raccontare la storia dell’umanità sotto uno sguardo provvidenziale. Nasce il ciclo decorativo della Scuola Grande di san Rocco, una autentica Sistina veneziana. Dal 1564 al 1578 Tintoretto vi narra in enormi teleri le storie del Vecchio e Nuovo Testamento.

 

Lo «spettacolo continuo», come lo definiva il Longhi, commuove, esalta, sorprende: dalla larva candida del Cristo dinanzi a Pilato, alla poesia bucolica della Fuga in Egitto, dall’eroismo delle storie di Mosè al pathos della Crocifissione, già barocca e surreale, eppure indagata in ogni dettaglio concreto. C’è riflessione, fede sincera, in queste tele sterminate – perciò inamovibili –, nate dalla luce.

 

Da san Rocco arrivano però a Roma le due Visioni di santa Maria Egiziaca e Maria Maddalena. Notturni romantici, tra estasi e bellezza naturale di ruscelli, alberi, paesi lontani evocati da una luce “magica”. Atmosfera da versi del Tasso, da poesie di Giovanni della Croce. Il misticismo fatto colore monocromo, puro bagliore.

 Questo è anche Tintoretto, che sempre coniuga realtà e visione. Nelle dinamiche Cene – in mostra il confronto fra quelle veneziane di san Trovaso e san Paolo è strepitoso – come nelle scene di fantasmi del Trafugamento del corpo di san Marco, lampeggiante tra fulmini e tempeste di sabbia.

 

Lavorerà con quest’impeto sino alla fine, Tintoretto. Nel 1594, prima di morire, dipinge una Pietà per san Giorgio Maggiore: una doppia “deposizione”, del Cristo e di Maria, struggente, fra lampi lontani. Che mondo di emozioni ruggenti, dentro quest’uomo. Negli autoritratti da vecchio, del 1589, come in quello giovanile, che aprono e chiudono la mostra, si nota infatti una energia trattenuta a stento. E insieme una meditazione assidua sulla vita. Quella che esplode con fantasia ardita nelle sue opere.

 

Tintoretto, Roma, Scuderie del Quirinale. Dal 25/2 al 10/6 (catalogo Skira).

 

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