Uno specchio del mondo
Mai come quest’anno la Mostra del Cinema è stata per dieci giorni lo specchio che ha riflesso le immagini di un mondo impaurito, confuso, smarrito. In uno straniante corto circuito tra cinema e realtà, le immagini della tragedia di Beslan e l’angoscia per il rapimento di Simona Parri e Simona Torretta si sono riflessi in un drammatico sincronismo nei tanti film che sullo schermo ci hanno raccontato di guerre, terrorismo, violenza, dolore e morte. Scoprire nel raggelante documentario della regista finlandese Pirjo Honkasalo, I tre stati della melanconia, il dramma degli orfani allevati in una scuola militare vicino San Pietroburgo, dei loro coetanei raccolti da una donna tra le macerie di Grozny in Cecenia e dei bambini nei campi profughi dell’Inguscezia, destinati a crescere nell’odio reciproco, dimostra come l’orrore fosse stato previsto, filmato, anticipato. Si percepisce nel cinema di oggi una maggiore consapevolezza di potere e volere essere uno strumento di indagine del nostro tempo. Ne sono esempio il bellissimo documentario L’incubo di Darwin di Hubert Sauper, che svela le storture di un capitalismo che sta distruggendo l’ambiente, l’economia e la società africana, o The Hamburg Cell di Antonia Bird che con la tecnica del docu-drama tenta di capire come un tranquillo studente possa intraprendere la strada della Jihad e diventare uno dei terroristi dell’11 settembre. Ma questa esigenza di riflettere la realtà in tutte le sue inquietudini, ansie e paure ha caratterizzato molti dei film visti al Lido. E non è un caso che si siano imposti due film come Vera Drake di Mike Leigh (Leone d’oro e miglior attrice), in cui si racconta con grande rigore una storia di aborti clandestini nella Londra degli anni 50 e l’inquietante Mare dentro (Leone d’argento alla miglior regia e miglior attore) di Alejandro Amenabar, intenso racconto di un tetraplegico che vuole affermare il suo diritto all’eutanasia. Le chiavi di casa, il bel film di Gianni Amelio, è stato invece ingenerosamente ignorato dalla giuria presieduta da John Boorman. Il film racconta la storia dell’incontro, il primo, tra il padre e il figlio disabile di quindici anni, e del viaggio che i due intraprendono attraverso l’Europa alla scoperta l’uno dell’altro. Nell’alternarsi di dolore e speranza, Amelio affronta con grande sensibilità il tema del rapporto con la diversità, scegliendo di mettersi, forse un po’ eccessivamente, da parte per far emergere le persone piuttosto che i personaggi. Il Premio speciale della giuria è andato, invece, allo splendido Ferro 3 di Kim Ki-duk, autore di una raffinatissima favola urbana, scandita da momenti di cinema straordinari capaci di stupire e incantare come nessun altro è riuscito a fare al Lido quest’anno. Tra gli altri film da segnalare, Land of Plenty di Wim Wenders, un film importante, anche se imperfetto, che si interroga su cosa rimane del sogno americano dopo l’11 settembre intrecciando le vite e le contrapposte visioni del mondo di un reduce del Vietnam sconvolto dall’attentato alle Torri gemelle e quello di sua nipote, una giovane cristiana impegnata, appena rientrata negli Usa dalla Palestina. Amos Gitai, in Promised Land, ci guida, camera in spalla, negli inferi del traffico di prostitute in Israele, in un film cupo, claustrofobico e non consolatorio sul dramma di queste ragazze condannate alla schiavitù, mentre Todd Solondz con Palindromes affronta il tema della pedofilia e dell’aborto, smontando pezzo a pezzo, nel consueto stile disturbante e dissacratore, le ipocrisie e le menzogne della middle-class americana. Il cinema italiano si conferma incapace di imporsi sulla scena internazionale. Tra i molti lavori, convince Lavorare con lentezza, di Guido Chiesa, uno sguardo sul ’77 da una prospettiva inconsueta, così come hanno bene impressionato sia Francesco Munzi con Saimir, che Vincenzo Marra con Vento di terra, mentre Ciprì e Maresco con il loro documentario su Franco Franchi e Ciccio Ingrassia Come inguaiammo il cinema italiano, si confermano cineasti di razza. Ma l’impressione, nel complesso, è che la nostra produzione rimanga asfittica, non solo per la cronica mancanza di investimenti, ma anche per una crisi creativa e soprattutto professionale. Un’ultima, doverosa, annotazione riguarda l’organizzazione. Questa 61ma edizione era stata preventivamente (e incautamente) celebrata da Müller come la migliore degli ultimi dieci anni. E se i motivi per credergli non mancavano, a cominciare proprio dalla sua presenza al timone della rassegna, alla prova dei fatti le speranze della vigilia sono state stritolate dagli ingranaggi di una macchina organizzativa che ha clamorosamente toppato, trasformando a tratti la Mostra in una sorta di carnevale impazzito. Peccato, perché l’offerta cinematografica è stata quest’anno più che soddisfacente, in crescita rispetto alle precedenti edizioni, anche grazie al grande successo riscosso dalla retrospettiva sul B movie italiano, che ha coinvolto registi del calibro di Quentin Tarantino e Joe Dante. Per molti versi questo poteva essere il fatidico anno della svolta, il rilancio di una rassegna che molti vedono in lento ma costante declino. Ma anche quest’anno, alla fine, sono stati i film a salvare la Mostra da sé stessa. ,