Uno sguardo verso l’alto
Un pallone scivola leggero sul parquet di una palestra da basket per l’ultimo allenamento. Siamo in Versilia nel settembre del 1994. Marco Calamai è un affermato allenatore di basket della squadra di Livorno. Squilla il telefono. La sua squadra è radiata dal campionato italiano di serie A. Da accertamenti giudiziari della guardia di finanza, risultano delle false fideiussioni bancarie firmate dal presidente della società. In quel momento tutto cambia, si ritrova senza un lavoro e senza un perché. I sacrifici fatti per trasferirsi da Bologna a Livorno, i soldi anticipati per prendere una casa in affitto, la fatica di allenare dei giocatori ormai demotivati, tutto appare senza una spiegazione logica. L’unica triste soluzione è tornarsene a casa. Nel suo viaggio di ritorno attraverso gli Appennini, incontra a Monzuno i ragazzi disabili della comunità La Lucciola in soggiorno estivo. Colpito dalla loro serenità, decide di incontrare la neuropsichiatra Emma Lamacchia, responsabile dell’Associazione che ha sede a Ravarino, nei pressi di Modena. Osserva con attenzione i ragazzi nelle loro attività quotidiane e di gioco. Ognuno è assorto in un mondo a parte che ha poche relazioni con l’esterno, la comunicazione è ridotta al minimo e tutte le potenzialità di questi ragazzi sono rinchiuse in una gabbia, una camicia di forza immaginaria molto stretta e soffocante. Gli viene un’idea. È un allenatore di basket e gli basta poco per valutare la situazione. Li avevo visti nuotare o andare a cavallo – ci racconta – :tutti sport individuali, dove non c’è interazione con l’altro, ognuno è concentrato solo su sé stesso. Perché, invece, non provare con il basket? Con la palla è tutto diverso, sei costretto a guardare negli occhi il tuo compagno, a passargli la palla. Se lui non è attento e non la prende, il gioco è finito. La palla è la metafora dell’integrazione . Spiega la sua idea a Emma. Il basket fatto di passaggi, di scambi, di collaborazione, potrebbe essere uno strumento adatto per forzare l’involucro che chiude questi ragazzi nella malattia mentale. Emma è assolutamente incompetente di sport. L’unico legame che ha con le discipline sportive sono un vecchio paio di scarpe di ginnastica abbandonate in un armadio. Marco, sebbene colto e laureato in Filosofia, non conosce le malattie mentali, e non distingue un ragazzo psicotico da uno autistico. Eppure, da queste due incompetenze, nasce qualcosa di nuovo. Emma e Marco si capiscono al volo e decidono di provare l’esperimento. I ragazzi giocheranno al basket. La prima palestra è – ci ricorda – un’ex stalla di quattro metri per otto, ripulita e riadattata; il canestro è un cestino per la carta sbilenco e ritagliato a dovere; ai lati alcuni abbeveratoi dove di solito corre la linea laterale. Gli esercizi sono soprattutto giochi in cui la palla viene toccata, manipolata, passata sul corpo. Il metodo è ancora artigianale e sperimentale, però funziona. Sofia ha nove anni, è una bimba bellissima e non parla con nessuno perché una musica che solo lei sente l’irretisce con magici suoni, trasportandola lontana da quella realtà variopinta e colorata. Non partecipa al gioco, la palla la sfiora mille volte e lei non dà nessun segno apparente di reazione. Dopo un po’ – ci spiega Marco – vedo Sofia seduta su una sedia. Mi avvicino e mi lascio scorrere il pallone sulle gambe fino a fermarlo con un leggero sollevamento verticale dei piedi. Mi guarda e sorride. Lo faccio sulle sue gambe e ride ancora. Improvvisamente mi prende per mano e mi porta sotto il canestro. Si accorge che è alto. Prende da sola un tavolo e lo piazza sotto il canestro. Ci sale e tira. Alla fine di quel pomeriggio mi ha sorriso con naturalezza e mi ha detto ciao. Era la prima volta che parlava. Marco capisce di essere ormai, dopo oltre 300 partite di serie A, un ex allenatore di basket e di non sopportare più il disimpegno, la svogliatezza, la pigrizia di chi in palestra ci va per un gioco che è diventato solo lavoro. La sua è una scelta irreversibile: allenerà i ragazzi disabili, adattando la sua esperienza da professionista alle loro potenzialità. Dopo tre anni di pallacanestro con i ragazzi dell’Associazione La Lucciola, il progetto si allarga a Bologna fino a trasferirsi nella storica palestra della Fortitudo. L’accoglienza e l’accettazione – sottolinea – da parte di una società che da oltre un secolo fa attività con i normodotati di un gruppo di atleti diversamente abili è un fatto straordinario. L’esperimento iniziato con dieci ragazzi prosegue presto con una sessantina di giocatori di tutte le età. Marco Calamai è un allenatore vero. Non ci sono sconti per nessuno: sgrida, urla, esige il rispetto delle regole e tratta i suoi ragazzi come una squadra di seria A. Tutti i ragazzi devono rispettare le regole – ci spiega -;può sembrare incredibile, ma anche i ragazzi più in difficoltà sanno cogliere l’importanza di una norma di comportamento all’interno di un gioco collettivo. All’inizio qualche genitore è sorpreso e spaesato dalla sua severità, ma sono i ragazzi stessi a convincerli che questo è l’unico modo di correggersi e imparare a giocare. Accade che Andrea, un volontario, un giorno gli lancia una proposta audace. Perché non iscrivere la squadra dei ragazzi disabili, insieme ai giocatori normodotati delle giovanili della Fortitudo, al Torneo italiano degli oratori? Marco non ci sta, è un campionato vero e proprio ed ha paura di esporre i ragazzi a sconfitte pesanti che li avrebbero scoraggiati. Poi cambia idea. Rinunciare alla possibilità offerta significava proteggere il gruppo, ma correre il rischio voleva dire entrare in un mondo nuovo. La formula scelta è una squadra mista, il tre più due. In ogni partita il quintetto in campo, al di là del risultato, sarebbe stato formato da tre giocatori normodotati e due disabili. La prima partita riaccende tutte le sue perplessità. Gli avversari sono troppi veloci e i genitori dei ragazzi si ribellano se i loro ragazzi sono esclusi dalle convocazioni. Il dubbio di non essere competitivi è fondato. Gli allenamenti successivi lo incoraggiano tuttavia a proseguire. Il risultato finale è straordinario: arrivano secondi in campionato con undici vittorie e tre sconfitte. L’anno successivo di nuovo secondi. Il segreto è nell’unità del gruppo di gioco – sottolinea – e nella solidarietà tra tutti che si può scoprire nel proprio animo quando ci si mette all’ascolto dell’altro, delle sue esigenze e dei suoi bisogni. Ho conosciuto Marco a Bologna, durante la registrazione di un programma televisivo a cui collaboro. Ho visto i suoi ragazzi entusiasti, assetati di relazioni e di autenticità. Alla fine delle riprese, quando l’ultima intervista si è conclusa, Fabio, un ragazzo down, guardando fisso nell’occhio della telecamera, con il volto pieno di gioia ha urlato: Grazie!. Restiamo colpiti da questa frase e concludiamo il copione della trasmissione aggiungendo nell’ultima inquadratura la scritta Grazie a voi!. A riflettori spenti ho capito l’esperienza di Marco. Il paradigma dell’integrazione è nella reciprocità. È nel gioco della vita, il gioco del dare e del ricevere.