Uno scrittore migrante
Sui bastioni delle mura di Lucca, con un panino, con gli aghi di pino che cadevano nella tastiera del portatile, scrivevamo racconti. Era fine agosto. Erano esercizi che Julio ci dava durante il laboratorio di scrittura. A casa sua leggevamo i testi ad alta voce: un rito di comunione. Il timbro tradiva le emozioni. Attendevamo qualche secondo in silenzio. Julio diceva un’impressione con delicatezza e acume. Poi chiedeva le nostre. L’esercizio era lo stesso, il modo di eseguirlo di ognuno completamente diverso. Chi sceglieva la prima persona, chi la terza, chi scriveva una lettera, chi un’intervista. Riflettevamo sulle scelte stilistiche che lo scrivere impone. Da dove nascono? Quanto sono appropriate alle storie che abbiamo in mente? Andavamo a scuola dai grandi scrittori, leggevamo loro brani. Si tornava a casa con parole nuove in testa. Sul treno ancora il tempo di scrivere qualcosa. E leggere, soprattutto leggere. Ho conosciuto Julio Monteiro Martins dal sito della sua scuola e rivista Sagarana (http://www.sagarana. net/). Sono rimasto colpito dalla sua visione della scrittura come una missione e dal suo stile a cavallo fra tradizione sudamericana ed anglosassone. Ho scoperto che avevamo amici in comune. Ed ho deciso d’incontrarlo, anche per togliermi una curiosità che mi portavo dentro da tempo: come funziona una scuola di scrittura creativa? Scrittura creativa è la traduzione letterale dall’inglese di creative wri- ting. Negli ultimi dieci anni c’è stato in Italia un autentico proliferare di scuole di scrittura, anche le università hanno cominciato a dare spazio, attraverso seminari, laboratori e master, a questo insegnamento, che all’estero è da tempo istituzionale. L’onda è arrivata dagli Stati Uniti. Julio ha iniziato lì ad insegnare nel 1979, al Goddard College (Vermont), ed ha continuato all’Oficina Literária Afrânio Coutinho (Rio de Janeiro), all’Istituto Camões di Lisbona e alla Pontifícia Universidade Catòlica di Rio de Janeiro. L’esperienza non gli manca. E neppure la meraviglia umile di chi, mentre ti spiega una cosa, sembra la stia scoprendo insieme a te in quel momento. Nel 1995 è approdato in Italia. Pochi giorni prima moriva un altro poeta, Heleno Oliveira, anche lui brasiliano, arrivato a Firenze negli anni Ottanta. Una coincidenza? Una staffetta? Nell’introduzione al libro di Heleno, Se fosse vera la notte (Zone Editrice, 2003), scrive Julio: Non ci siamo incontrati per poco. Ora, in questo libro, parole mie e parole tue, riallacciamo sulla carta il dialogo mai avvenuto, mutilata la possibilità dello sguardo. Una cosa è certa: lo sguardo vergine di un poeta migrante porta nuova luce tra tanti sguardi sedentari, assuefatti. Oggi Julio insegna lingua portoghese e traduzione letteraria all’Università Degli Studi di Pisa, e dirige la Scuola di Scrittura Sagarana a Lucca. Il resto ce lo dice lui. Sagarana. Cambiano le consonanti ma la vocale resta sempre la stessa: la prima. Qual è il punto fermo o di partenza della Sagarana, la prima lettera dell’alfabeto dello scrittore? La parola Sagarana, titolo di un libro di Guimarães Rosa, neologismo creato da lui, significa un’infinità di storie, un mare di racconti. L’idea, quando l’abbiamo creata, era quella di orientare e incentivare la creazione delle nuove storie, dei romanzi e dei racconti così necessari nell’Italia dei nostri giorni, per fare i conti, criticamente e poeticamente, con la nuova realtà, con un’Italia urbana e tecnologica che ci auguriamo anche più cosmopolita e multiculturale. Ma la Sagarana è stata creata anche per ripristinare il vero senso della scrittura, che al mio arrivo in questo paese ho trovato un po’ confuso e smarrito, ossia, non il mercato, le vendite, il business editoriale, il marketing, ma l’etica, la sperimentazione stilistica, la chiaroveggenza e l’intuizione dello scrittore, l’amore vero e duraturo per l’arte letteraria, il proseguimento della tradizione dell’alta letteratura, il sacerdozio dello scrivere. C’è un gran bisogno di comunicatori, ancor più di poeti, narratori, romanzieri. Cosa si può insegnare e cosa non si può insegnare ad uno che si sente chiamato a scrivere? La parola insegnare forse non è del tutto adatta ad un vero laboratorio di scrittura, per il suo carattere unidirezionale, asimmetrico. Io preferisco pensare ad una sinergia creativa, ad un circolo virtuoso di scambio, apprendistato e contaminazione che si crea tra professore e allievo e soprattutto tra gli stessi allievi. Si tratta di creare un tempo e uno spazio nel quale i nuovi scrittori troveranno un forte stimolo alla loro fantasia, scopriranno nuove tecniche di costruzione del personaggio, dell’intreccio, dello stile personale, del punto di vista narrativo, e potranno godere del feed-back ai loro nuovi testi, lo sguardo dei loro pari, quello che nutrirà la crescente qualità dei loro racconti. Uno scrittore di racconti è un romanziere posseduto da un poeta. Mi piace questa tua definizione. So che prediligi la forma breve e ritengo che la brevità sia un valore forza risultante di leggerezza, spessore e rapidità. Ma non sempre ci è dato scegliere. Quando hai un’ispirazione, come fai a capire se è l’inizio di un romanzo, un racconto o una poesia? Hai intuito bene quando dici che non sempre ci è dato scegliere. Direi che non è una questione di scelta ma di percezione. Uno deve chiedere alla storia che ha in mente quali sono i suoi bisogni narrativi, ossia di quale respiro, di quale lunghezza – ma anche di quale punto di vista narrativo, e di quale tempo cronologico e psicologico – necessita per realizzarsi nel modo più compiuto ed efficace, per materializzare nel racconto tutto il suo potenziale espressivo. Questo insieme di tecniche e di stili messi al servizio di ogni specifica storia – intrasferibile ad altre storie, non riducibile a regole generiche – io lo chiamo strategia narrativa. L’esperienza della scrittura, ma anche quella della lettura, lungo gli anni, forniscono allo scrittore i ferri del mestiere, la capacità di intuire, o di disegnare, la strategia narrativa ideale per l’opera che sta per scrivere, lui valuta in anticipo le sue alternative e decide per quella che produrrà il risultato migliore. Hai scritto che la narrativa è la forza benevola che già da qualche generazione blocca l’espansione del male, argina gli incubi collettivi, e al tempo stesso modella una nuova umanità . Non credi che ci sia troppo poca luce nella letteratura contemporanea? Si predilige l’assurdo, il vuoto, il male. Ma il bene, la bellezza, la verità dove sono, perché se ne parla e scrive così poco? Ma guarda, non sarà cercando di descrivere il bene che si costruisce una letteratura profonda e importante. Le librerie sono piene di libri stucchevoli, leziosi, che pretendono di presentare il bene e non fanno altro che banalizzarlo, ridurlo a una povera caricatura di se stesso. E non a caso molti di questi libri sono bestseller, si vendono come focaccia calda, e i loro autori sono diventati celebrità del piccolo schermo e delle riviste patinate. A mio parere, questa letteratura dolciastra, superficiale, vuole spacciare per saggezza la banalità, lo stereotipo. La vera letteratura, invece, cerca non le risposte semplici – e false – ma la complessità e le contraddizioni dell’uomo, l’ambiguità che lo rende unico; la dannazione che gli è inerente, che nasce dai suoi dubbi irrimediabili, dalla sua crisi di coscienza – impossibile non averla in questi tempi drammatici -, la sua disperata, spesso patetica ricerca di una qualsiasi redenzione, attraverso l’arte, il misticismo, il suicidio, la violenza, l’altruismo, il conformismo, il narcisismo o l’annullamento del proprio essere. Spesso, in letteratura, è l’immersione dello scrittore nell’essenza del male a illuminare la possibilità del bene. Un bene a volte mischiato, intriso nel male, come l’oro nella roccia, nella polvere indistinta. Pensa all’opera di Dostoevskij, pensa a Nietzsche, a Kafka, pensa a romanzi come Notre Dame des Fleurs di Genet o a Heart of Darkness di Conrad. Pensa al bellissimo Ernesto di Umberto Saba. Pensa ai racconti di Cattedrale di Carver o magari al mio La passione del vuoto. Sono opere coraggiose, che non girano la faccia di fronte al meglio o al peggio di noi, che non hanno paura della verità dell’uomo, e così trovano il sublime all’interno del sordido, conoscono la natura della caduta degli angeli, raccontano questo precipitare, raccolgono i loro frutti nell’albero della conoscenza e magari utilizzano la luce torbida del male per illuminare il bene, scoprirlo in mezzo agli umori e al tessuto del dramma umano, dove il bene scintilla all’ombra, risplende, a volte abbaglia, a volte si appanna, e a volte è l’ombra stessa che è così concentrata – un grumo nero di dolore – che diventa luce, come il nero carbone non è altro che il diamante in attesa.