Università, quale professore?

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L’aspetto negativo della proposta Moratti è quello del precariato: la possibilità, cioè, che dopo dieci anni di lavoro all’università si decida di non assumere il docente. Mi sembrerebbe opportuno accelerare il processo di valutazione: basta molto meno di dieci anni per capire se un giovane ha la stoffa e la volontà per fare il professore; in questo caso, lo si assume. In caso contrario, una valutazione più veloce mette la persona interessata nelle condizioni di trovare un’alternativa quando ha ancora l’età giusta per farlo. Parole sensate, ci sembra, che vanno a toccare uno dei punti centrali delle Norme di delega per il riordino dello stato giuridico dei professori universitari, predisposte dal ministro dell’Istruzione Moratti e approvate dal Consiglio dei ministri il 16 gennaio scorso. È il parere di Vincenzo Crupi, ricercatore confermato nella Facoltà di Lettere dell’Università di Messina: non rifiuta l’idea di mettere mano alla situazione dei docenti universitari, e condivide l’esigenza di intervenire sulla figura dei ricercatori. Il ricercatore è la figura di accesso all’insegnamento universitario. Di per sé, dovrebbe dedicarsi alla ricerca e, una volta formato, accedere all’insegnamento. In realtà, l’università italiana è piena di ricercatori che svolgono gli stessi compiti dei docenti veri e propri, gli associati gli ordinari, che appartengono alle altre due fasce della docenza uni- versitaria. Sono dunque, di fatto, dei professori, che scrivono libri e tengono in piedi dei corsi universitari, capaci di arrivare molto avanti negli anni senza che le loro effettive funzioni vengano riconosciute. All’opposto, esistono anche ricercatori che producono niente o quasi, che hanno dimostrato di non avere attitudine per la ricerca, né per l’insegnamento, ma che si rivelano utili per far fronte alla massa degli esami e dei compiti burocratici: d’altra parte, una volta diventati ricercatori e ottenuta la conferma dopo tre anni, l’assunzione in ruolo è definitiva. In questa situazione, che ci sia qualcosa da sistemare, è evidente. Ci ha messo mano il ministro Moratti, con le sue Norme che costituiscono un’intelaiatura, i cui princìpi dovranno trovare concretizzazione attraverso i decreti attuativi che il governo, successivamente, dovrà produrre. Il confronto attuale, dunque, che giunge dopo che il Consiglio dei ministri ha già approvato le Norme, e che vede impegnati il Ministero, il Consiglio universitario nazionale e la Conferenza dei rettori, è ancora un dibattito sulle idee generali; ma è importante perché stabilisce i princìpi a cui ci si dovrà attenere. La Moratti vorrebbe mandare ad esaurimento il ruolo del ricercatore. I dottori di ricerca e coloro che abbiano conseguito un master di secondo livello, cioè i giovani che potrebbero aspirare a percorrere la carriera universitaria, dovrebbero iniziare con un contratto a tempo determinato, rinnovabile fino a un massimo di dieci anni, durante i quali dovrebbero svolgere attività di ricerca e di didattica integrativa. Sono questi i dieci anni di precariato, contro i quali molte università stanno protestando. Non vedo la logica – prosegue Crupi – di mantenere la distinzione fra professori associati e ordinari così come è adesso: i due tipi di docenti fanno, in sostanza, le stesse cose. Una volta che si è stabilito che una persona può fare il professore, dovrebbe entrare nel ruolo senza istituire, come oggi, due fasce di docenti. Piuttosto, come si fa in altri paesi, sarebbe bene stabilire, all’interno dell’unica fascia di docenti, un crescendo di compiti, di controlli, di responsabilità e di retribuzione, a seconda della maturazione delle competenze e delle capacità. E nella valutazione dei docenti dovrebbero entrare in modo sostanziale anche gli studenti, che dovrebbero, come si fa all’estero, fornire una valutazione articolata e motivato sui loro insegnanti. Lo si fa solo in alcune università italiane. Come risponde il ministro a queste esigenze? Le Norme non vanno a toccare la distinzione tra le due fasce, e mantengono gli attuali associati e ordinari, non si sa se per convinzione, o per non andare a cercare altri guai. La Moratti prevede però che si possa diventare professori solo dopo il conseguimento di una idoneità scientifica nazionale, e che i docenti dovrebbero sottoporsi, ogni cinque anni, ad una sua verifica. L’idea è quella che la cattedra, una volta raggiunta, non diventi una sinecura e che il professore continui ad impegnarsi per mantenerla. Ancora, le università potranno stabilire contratti per l’insegnamento, rinnovabili fino a tre anni, o direttamente triennali nel caso di un docente straniero o di un italiano impegnato all’estero; per le università statali è stabilito un limite: questi contratti potranno arrivare a coprire il 50 per cento del fabbisogno di docenti. Ciò significa che metà del corpo docente di una università statale potrà essere, sostanzialmente, provvisorio: nell’ottica del ministro, dunque, c’è un’università molto dinamica e flessibile, capace di inventare continuamente nuovi corsi, spinta a stipulare convenzioni con imprese, fondazioni, enti pubblici e privati, al fine di realizzare progetti di ricerca e offerte formative, in particolare collegate alle esigenze dei partners che ne sono i finanziatori. In questa dinamicità risiede un aspetto positivo evidente, che a nostro avviso va salvato: la capacità di adeguarsi costantemente alla dinamica economica e sociale, di fare una ricerca che sostenga la capacità innovativa e produttiva dell’intero paese; è così che funzionano molte università all’estero. Ma c’è anche il rischio di arrivare a fare ricerca solo su ciò che prevede un ritorno economico immediato per coloro che vi investono. E questo è un altro punto saliente della proteste attuali negli atenei: la richiesta di maggiori investimenti per garantire anche una ricerca autonoma dalle richieste immediate del mercato, una ricerca che non trova giustificazione nel profitto privato, ma che può essere importante nel lungo periodo, e può rispondere alle esigenze dei soggetti che non hanno la forza economica per pagarla, e a esigenze di cultura e di formazione delle persone, che non hanno un prezzo. LA RIFORMA? PEGGIORA LE COSE Intervista con Giuseppe Giaccone, ordinario di Ecologia generale e direttore del corso di laurea in Scienze ecologiche ed educazione ambientale dell’università di Palermo. Prof. Giaccone, che cosa non va nella proposta del ministro Moratti? L’esigenza di qualificare il reclutamento e di programmare la formazione dei docenti universitari è condivisa da tutti; non è adeguato il modo con il quale si intende soddisfarla. Tanto più che il documento del ministro è stato presentato al Consiglio dei ministri senza essere prima sottoposto né al Consiglio universitario nazionale (Cun), né alla Conferenza dei rettori universitari (Crui), che hanno compiti di consulenza nei confronti del ministero. Passiamone in rassegna i punti qualificanti: condivide l’idea di abolire i ricercatori? Nella proposta del ministro Moratti c’è un peggioramento dell’attuale sistema di reclutamento dei professori, anzitutto proprio perché viene abolito il ruolo del ricercatore; il periodo da ricercatore, infatti, serve proprio per fare ricerca e per ricevere un addestramento e una formazione per la docenza; è quello che si faceva, una volta, con gli assistenti. Il contratto, invece, normalmente si fa a docenti che già sono ritenuti qualificati per insegnare; è un istituto eccezionale col quale si chiamano persone esterne all’università per svolgere una docenza di cui l’università ha bisogno. Ma non è sbagliato assumere un giovane in maniera definitiva? Ci sono ricercatori che rimangono nell’università senza poi compiere reali progressi nella propria professionalità. Il correttivo consiste nel porre un termine: dopo dieci anni, il ricercatore o entra in ruolo come docente, o va a svolgere un altro ruolo. La nostra proposta, dunque, è di non abolire il ruolo del ricercatore, ma di porre un termine temporale. E la riforma dei concorsi? È un altro punto dolente. Era stata data autonomia alle università nella selezione e nell’assunzione dei propri docenti. Il ministro Moratti sostiene che questa scelta ha declassato il reclutamento dei docenti, perché è diventato localistico: e questo solo perché nelle commissioni di concorso è previsto un membro interno della Facoltà? Le commissioni vengono elette col voto di tutti i professori del settore interessato, su base nazionale; la presenza di un rappresentante della Facoltà nella quale il vincitore andrà ad insegnare mi sembra opportuna. Il ministro vuole inoltre, nelle commissioni, un membro proveniente da un’università estera, per assicurare la qualità della selezione: che cosa ne pensa? Siamo d’accordo, ma solo se c’è una reciprocità, solo se si attua un accordo comunitario europeo, ad esempio, che distribuisca i commissari con un criterio internazionale; avremo, allora, non solo professori stranieri nelle nostre commissioni, ma anche professori italiani nelle commissioni di altri paesi. In caso contrario, sarebbero solo le università italiane a subire una penalizzazione; si affaccerebbe inoltre il rischio che, attraverso una scelta dei professori stranieri attuata a livello centrale, il ministero potrebbe condizionare il concorso. UN CONTROLLO PIÙ SERIO Intervista con Benedetto Gui, ordinario di Economia politica all’Università di Padova, direttore del Dipartimento di Scienza economica. Prof. Gui, che cosa pensa della proposta di mandare ad esaurimento il ruolo dei ricercatori? La situazione attuale, che vede un giovane entrare definitivamente all’università senza essersi effettivamente messo alla prova non è positiva. È vero che è prevista una conferma dopo tre anni, conferma che, teoricamente, potrebbe venire negata. Ma di fatto i ricercatori vengono tutti confermati, conservando definitivamente il loro impiego; e spesso, anziché dedicarsi alla ricerca, vengono impiegati per compiti di utilità immediata, didattica o amministrativa. E così, anche il ricercatore che si rendesse conto di non essere fatto per questa strada, e che non dovesse produrre più niente di importante dal punto di vista della ricerca, prima di lasciare un posto fisso, ci pensa bene, e rimane. Dunque la possibilità di rendere temporaneo il rapporto con i ricercatori già esiste? Sì, ma non viene usata. E trovo strano inserire in ruolo una persona, per tutta la vita, al primo colpo. Mi sembra più equilibrata la situazione che avevamo in passato, quando l’assistente, dopo quattro anni di prova, veniva valutato e, se giudicato positivamente, inserito nella carriera docente. In caso contrario, esisteva la via di uscita dell’insegnamento nelle scuole superiori. Penso che ci dovrebbe essere un rapporto provvisorio col giovane che si avvia alla carriera universitaria: alcuni anni duranti i quali egli si cimenta nella ricerca, si qualifica e viene formato per l’insegnamento. D’altra parte, dieci anni di incertezza, previsti dalla proposta del ministro di due contratti quinquennali, sono troppi; la valutazione dovrebbe avvenire molto prima. Ma vorrei sdrammatizzare il ruolo della normativa perché, quale che sia la legge, è importante esercitare con serietà i controlli. Si parla di un ritorno al nazionale per i concorsi a cattedra: che cosa ne pensa? L’autonomia conferita alle università negli ultimi anni, da questo punto di vista non sempre ha dato buoni risultati. Sarebbe dovuta scattare la responsabilità dei singoli atenei, che avrebbe portato a scegliere i migliori, anche se provenienti da altre università. In molti casi questo non è avvenuto; è scattata, invece, un’altra idea: sistemiamo i nostri. Questa situazione ha delle ragioni; per esempio, la considerazione che un docente che viene da lontano, potrebbe non volersi trattenere a lungo nella nuova sede e, appena possibile, cercherà di tornare a casa; di conseguenza, l’università dovrebbe investire su una persona che non garantisce continuità. Capisco questa e altre ragioni: ma in questo modo sono arrivate alla cattedra anche persone non adeguate; e questo, certamente, non qualifica gli atenei.

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