Unità ed ecumenismo: alcune chiavi di lettura
Intervista a Stefan Tobler, autore di Quale unità? Prospettive attuali del movimento ecumenico, «Nuova Umanità», XXXIV (2013/1) 205, pp. 1-9
1) Professor Tobler, vuole presentarsi? Ci racconta cosa porta un pastore riformato svizzero a Sibiu, di cosa si occupa, quali ruoli ricopre nella Chiesa e nella società?
La Svizzera pare una piccola isola chiusa in mezzo all’Unione Europea, ma, di fatto, non solo vi abitano molti stranieri, ma c’è un numero grande di svizzeri che lavorano all’estero; si sentono veramente europei (e non solo). Così è successo anche a me. Nella mia formazione e attività professionale, ho vissuto due anni e mezzo in Italia, 12 anni in Olanda, tre anni in Germania e ora da dieci anni in Romania. A Sibiu, inserito nell’università pubblica, c’è un piccolo istituto universitario di teologia evangelica-luterana in lingua tedesca, perché da molti secoli vive una minoranza tedesca in questa regione. Occupo il posto di professore di teologia sistematica, e da due anni sono direttore dell’istituto. Insieme ai colleghi della teologia ortodossa abbiamo fondato inoltre un istituto ecumenico di ricerca, per portare avanti il dialogo.
La Romania è uno dei Paesi tutt’ora in una situazione di transizione difficile. Le Chiese e la teologia hanno un ruolo importante nella costruzione di una società più giusta. Molte persone vivono in una situazione di povertà stridente. Così ho condotto anche un progetto di ricerca su “Povertà e dignità dell’uomo”, e sono implicato in progetti sociali.
2) “Quale unità” è il titolo del suo Editoriale pubblicato su Nuova Umanità 205. Si capisce subito che ci sono diversi modi di intendere l’unità: ce li vuole presentare?
È la domanda-chiave dell’ecumenismo. Come capire la preghiera di Gesù per l’unità dei suoi, in Giovanni 17? È un testo di bellezza e profondità unica, ma non è evidente che cosa significhi sul piano storico e per la forma visibile della Chiesa di Cristo. Questa unica Chiesa si presenta oggi sotto la forma di Chiese e confessioni diverse. La separazione certamente non è un bene – ma come vedere la diversità di liturgia, di strutture, di ministeri e di istituzioni? Fin dove la diversità arricchisce l’unità, dove invece la ostacola?
Siccome nelle varie tradizioni cristiane, il concetto di Chiesa (l’ecclesiologia) non è identico, anche le visioni riguardanti l’unità desiderata sono diverse, e appaiono difficilmente conciliabili. “L’unità ci sarà quando tutti saranno come me”, così crede chi sostiene un concetto esclusivista con il suo invito di “ritorno” all’unica “Chiesa vera”. All’altro estremo si trovano quelli che non vedono perché si debba cambiare la situazione attuale, perché l’unità è una realtà escatologica, invisibile nelle condizioni di spazio e tempo, reale soltanto in Dio stesso. Tra questi due poli, ci sono – nel dialogo ecumenico – due modelli di unità principali. Uno si può denominare “unità organica”, perché pone l’accento su alcuni elementi comuni di istituzione e ministero ecclesiale, come per esempio l’episcopato riconosciuto reciprocamente. L’altro è conosciuto sotto il nome di “pluriformità riconciliata”, perché lascia più spazio alla diversità, senza però escludere elementi visibili dell’unità.
3) Nel 1973 la Concordia di Leuenberg pone fine alla separazione tra diverse Chiese della Riforma generando la Comunione di Chiese Protestanti in Europa; il modello di unità su cui questa si fonda è un modello dinamico: ci vuole raccontare come, concretamente, si realizza questa unità?
La Concordia di Leuenberg è un grande successo del movimento ecumenico. Ha riunito – per ora nel continente europeo – tutte le Chiese luterane, riformate, unite, metodiste e valdesi. In un primo passo, dopo un lungo processo di avvicinamento teologico, ogni Chiesa che aderisce alla Concordia, dichiara di riconoscere nelle altre Chiese la pienezza della Chiesa di Cristo, e con questo atto riconosce pienamente i ministri degli altri, con la loro predicazione e l’amministrazione dei sacramenti (che possono essere celebrati anche insieme). Ma questa dichiarazione della piena comunione è solo l’inizio di un cammino. Adesso si tratta di trovare i mille modi di concretizzare la comunione, nella testimonianza comune in questo mondo, nel servizio agli uomini, nella celebrazione comune. In ogni posto e ogni Paese si trovano modalità diverse per questa concretizzazione. Può condurre – come è stato il caso in Francia, Olanda e Belgio – anche all’unione istituzionale delle Chiese luterane e riformate. Ma questo non è obbligatorio per potersi considerare “in piena comunione”.
4) Ritiene che una forma analoga di unità sia auspicabile e realizzabile anche con le Chiese non riformate?
Ho l’impressione che al di fuori delle Chiese che hanno firmato la Concordia di Leuenberg, ci sia una idea riduttiva di questo modello. Qualcuno, anche tra teologi cattolici, lo considera minimalista, senza però essere cosciente dell’elemento dinamico di esso. È importante fare chiarezza al riguardo, è perciò un segno molto incoraggiante il fatto che sia da poco iniziata una serie di consultazioni tra la Comunione delle Chiese Protestanti in Europa e il Segretariato per l’Unità del Vaticano. Ritengo che una forma analoga di unità sia molto auspicabile anche con altre Chiese. Che sia anche realizzabile? Bisogna certamente sciogliere alcuni nodi non facili, soprattutto riguardanti il ministero nella Chiesa. Ma ripeto: le possibilità del modello di Leuenberg non sono ancora state esplorate tutte.
5) Quali sono i prossimi passi che lei vede nell’orizzonte del cammino ecumenico?
Uno dei passi l’ho appena descritto. È importante non interrompere il dialogo, anche e soprattutto in un periodo – come mi pare quello attuale – privo di grandi risultati. Rimane fondamentale inoltre continuare nell’impegno comune nella società. Quando viviamo, lavoriamo e soffriamo insieme per il bene del prossimo, anche sul piano spirituale e teologico ci avviciniamo; perché è Gesù che incontriamo e serviamo, è Gesù che vive tra noi in mezzo a questo mondo. E questo conta.