Un’isola chiamata Robinson

Dalla parte di Venerdì: la “favola ecologica” riletta da Tournier nei luoghi che ispirarono Defoe. Un racconto che fa pensare, una delicata riflessione sulla solitudine e l'incontro tra culture
La copertina del libro "Venerdì o la vita selvaggia"

Siamo alle Fernández, arcipelago vulcanico dell’Oceano Pacifico situato a 670 chilometri ad ovest della Costa del Cile. Scoperto dal navigatore spagnolo Juan Fernández il 22 novembre del 1574, oggi è bene protetto dall’Unesco.

Fino al 1966 l’isola principale si chiamava Más a Tierra o Aguas Buenas. A partire invece da quell’anno ha ricevuto un nuovo nome: isola Robinson Crusoe. Infatti nel 1704, unico superstite da un naufragio, vi approdò il marinaio Alexander Selkirk la cui storia ispirò il celebre romanzo di Daniel Defoe. E proprio a Selkirk, sempre nel 1966, è stata intitolata la seconda isola dell’arcipelago, prima nota come Más Afuera. L’unica abitata è la Robinson Crusoe, la cui popolazione, che nel 2002 contava 633 unità, si concentra per lo più nella capitale San Juan Bautista, affacciata sulla baia Cumberland.

Tornando al capolavoro di Defoe, va detto che esso ha generato un’infinità di imitazioni: le cosiddette robinsonnades, fedeli in genere al cliché che vede il o i sopravvissuti a un naufragio colonizzare l’isola della salvezza, trasferendo in essa usi e costumi della propria civiltà.

Michel Tournier, giornalista e scrittore oggi ultranovantenne, ci ha provato anche lui con un risultato tra i più riusciti e originali. Nella sua libera reinterpretazione del romanzo di Defoe, infatti, egli fa assumere un ruolo non subalterno ma di coprotagonista a Venerdì, il selvaggio salvato da Robinson, del cui punto di vista fa un punto di forza per dare all’intera vicenda una lettura molto intrigante per la sensibilità moderna. E Venerdì o la vita selvaggia è appunto il titolo di questo romanzo del 1971, ormai diventato un classico.

Per la verità l’autore aveva già affrontato l’argomento quattro anni prima con Venerdì e il limbo del Pacifico, dando alla storia più esplicite connotazioni filosofiche. In questa seconda versione, invece, diretta preferenzialmente ad un pubblico giovanile, l’assunto di pensiero rimane, ma è felicemente fuso in una narrazione fluida e lieve che non perde mai un colpo.

La trama è presto detta. Nell’isola deserta in cui è capitato, Robinson restaura le usanze del mondo da cui proviene con puntiglio e al limite del ridicolo, visto che non ci sono altri abitanti (si pensi alla cerimonia mattutina dell’alzabandiera e alla cena consumata indossando i suoi vestiti migliori). Ma la solitudine gli gioca brutti scherzi: scopre di non essere più capace di sorridere.

Per fortuna entra in scena Venerdì, che in un primo tempo si adegua alle strane abitudini del suo salvatore. Finché, involontariamente, fa esplodere la riserva di polveri che Robinson ha recuperato dalla nave naufragata, col risultato di distruggere tutte le innovazioni apportate da colui che si è autoeletto governatore dell’isola.

Tornati al punto di partenza, tocca a Venerdì insegnare al compagno di razza bianca come si vive veramente in un’isola selvaggia del Pacifico. Abbandonate le ridicole abitudini che alla fine gli avevano reso la vita complicata e noiosa, questi impara a poco a poco dalla sapiente industriosità dell’altro la bellezza di una vita libera e naturale.

Trascorrono per entrambi anni sereni e felici. Finché arriva una goletta a fare rifornimento di acqua e di viveri. L’ospitale Robinson, felice per la nuova compagnia, sopporta le devastazioni che i cosiddetti uomini civili portano nella sua bella isola. Ma all’invito del capitano, contrariamente all’eroe di Defoe, rifiuta di seguirlo in un mondo al quale ormai sente di non appartenere più. A terra però lo aspetta un’amara sorpresa: Venerdì è sparito. L’ingenuo selvaggio, affascinato dal nuovo giocattolo rappresentato dal bellissimo veliero, è partito con esso, ignaro della schiavitù che, in quanto uomo di colore, lo attende nella sua nuova patria.

Rimasto nuovamente solo, il disperato Robinson medita la morte finché scopre che il giovane mozzo della goletta ne era fuggito clandestinamente per sottrarsi ai maltrattamenti di bordo. Dopo averlo accolto come un figlio, Robinson, la cui fissazione è cambiar nome al prossimo, gli dice: «D’ora in poi ti chiamerò Domenico. La domenica è il giorno delle feste, delle risa e dei giochi. E per me sarai il fanciullo della domenica».

Tournier, con humor, leggerezza e un pizzico di poesia, sottolinea che l’uomo non è fatto per la solitudine, che l’incontro invece dello scontro tra culture è di comune vantaggio, perché c’è sempre da imparare dal diverso.

Una “favola ecologica”, la sua, che si può leggere a più livelli, lasciando al tempo stesso sereni e pensosi. Sì, perché, come ebbe a dire l’autore, «il mio proposito non è d’innovare nella forma, ma di far passare in una forma la più tradizionale, preservata e rassicurante possibile una materia che non possiede nessuna di queste qualità».

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