Unire New York è il compito di De Blasio

Il neoeletto sindaco di New York è un gigante di origini italiane che ha saputo catalizzare attorno al suo programma e alla sua persona un consenso strepitoso. Ora c’è attesa per la realizzazione e per i progetti a favore degli ultimi
Bill De Blasio

Con un plebiscito inatteso e raro nella storia politica di New York, Bill De Blasio è diventato il nuovo sindaco. Sulla simpatia, sulle origini italiane, sulle capacità di amministratore si è detto tanto. Il suo saluto plurilingue esprime già un piano plurale anche nel governo e nell’azione. Abbiamo chiesto un commento sulla vittoria di De Blasio a Matteo Luigi Napolitano, docente di Relazioni internazionali all’università Marconi di Roma.

Come interpretare l’elezione di un sindaco democratico al governo di una delle città simbolo degli Stati Uniti, dopo due mandati di governo di stampo repubblicano?
«L’elezione di De Blasio a sindaco esprime certamente un’istanza sociale, quella cioè di unire una città, una comunità, e in particolare unificare, se così vogliamo dire, la sua parte sociale e la sua parte finanziaria. Anche Giuliani si era impegnato su questa traccia, non allo stesso modo gli altri. La risposta così alta degli elettori, oltre il settanta per cento di consenso, mi sembra qualcosa di storico, raramente accaduto. Qui siamo davanti a un plebiscito e bisogna risalire a non so quale data per trovare queste cifre schiaccianti. Questi numeri esplicitano chiaramente il bisogno sociale di questa città. New York non rappresenta l’America totalmente: non è Washington, non è la Carolina, non è la Virginia, non è Chicago, ma è un posto internazionale e cosmopolita fatto di tutti e che appartiene a tutti. Aver saputo cogliere e intercettare i bisogni sociali in un posto del genere con un tale plebiscito è davvero impressionante e deve far riflettere. A Boston sarebbe stato più semplice, perché lì le istanze sociali sono molto forti. Ma nella Grande Mela, dove coesiste tutto e il contrario di tutto, in una città che non dorme mai, comprendere in tal modo i bisogni della gente impressiona anche noi analisti. In una città che riassume il mondo, che ne è la sintesi in qualche modo, un gradimento tale fa sperare che ci sia veramente la capacità di risolvere i problemi per cui lui si è candidato».

Qual è la peculiarità di questo sindaco?
«Credo rappresenti una grande speranza per la città, perché è il simbolo della sintesi di vita americana, quasi una catarsi collettiva e un segnale di ciò che gli americani si aspettano dai loro politici. Naturalmente non si può non pensare alle prossime elezioni presidenziali e alla seria riflessione da fare sui reali bisogni degli americani; la sua elezione è un passaggio intermedio per capire come l’elettorato si colloca sui grossi temi che interpellano la nazione. Più sarà in grado di realizzare il suo programma più gli americani si identificheranno in ciò che vorranno diventi il loro Paese tra qualche anno e negli anni a venire».

Cosa direbbe del suo modo popolare di porsi, quasi da showman?
«In Europa c’è un’altra formazione e i politici sono meno affabulatori, ma non è detto che siano meno capaci: bisognerebbe dotarsi di un buon comunicatore e quindi anche un cancelliere o un primo ministro potrebbe comunicare meglio. In America i politici sanno spesso coniugare buona capacità di comunicazione e grande capacità di realizzazione: connubio invidiabile per un europeo. Anche noi, però, possiamo usare meglio le nostre energie, saremo meno comunicativi ma possiamo essere catalizzatori di consenso e di simpatie perché capaci di realizzare».

Oltre alla gente comune ha conquistato il gotha della finanza.
«La finanza di New York city in questo momento ha una forte spinta etica e saper costruire una retta parallela che mostra Wall Street accompagnare la strada intrapresa dalle fondazioni, dalle istituzioni sociali è decisamente in linea con quello che sentono banche e imprese americane, che vogliono dotarsi di un’appendice etica che in qualche modo compensi i profitti e i benefìci finanziari di chi opera nel mondo della finanza. Il sindaco ha saputo raccogliere anche questa istanza. La finanza etica in questo momento ha un peso dentro la città finanziaria e credo che sia questa finanza etica ad aver votato per il sindaco di New York, perché si vuole coniugare profitto e giustizia sociale senza per questo uscirne perdenti. Basta pensare a quello che fa Bill Gates: è in Africa a finanziare progetti per quasi tre miliardi annui e a Wall Street le sue azioni salgono».

Quanto la storia personale di De Blasio ha inciso sul suo successo?
«La sua vita è un grosso amalgama: moglie afroamericana, figli con nome italiano, e tanti si sono riconosciuti nella tipicità di una famiglia americana che di fatto è spesso mista. Questo ha fatto in modo che anche l’afroamericano si sia riconosciuto in questo personaggio, che sembra essere la sintesi ideale e reale di come dovrebbe essere l’America, o meglio, di come è di fatto: un melting pot dove tutti ci si mischia, dove c’è un unico crogiolo per tutti in grado di produrre armonie inedite. Non si è neppure coalizzato contro di lui quell’atteggiamento "razzista al contrario", se così si può dire, cioè un mondo afro contro un mondo di governanti bianchi. L’elettore afroamericano si è sentito parte di un progetto, perché si è riconosciuto nella stessa famiglia del sindaco e questo ha fatto certo da collante con tante fasce di elettori».

Vorrebbe suggerire un punto di partenza nel suo lavoro amministrativo?
«Non voglio dettare un’agenda al sindaco, ma certo dovrebbe declinare in piccoli capitoli il grande programma per cui si è candidato e che lo ha portato alla vittoria. Ora, dopo essere stato eletto perché il suo programma è stato convincente, bisogna passare all’attuazione con l’ausilio di tecnici che prendano in carico le singole voci, come ad esempio la giustizia sociale o la sicurezza, e le declinino in provvidenze per la scuola e la cultura, in benefìci per le fondazioni che finanziano l’istruzione. L’istruzione e la formazione dovrebbero essere le voci principali per recuperare le persone di Harlem, del Bronx ed evitare che diventino ragazzi soggetti a devianza. Nel 2007 già il sindaco di Washington creò un progetto sotto lo slogan: “Nessuno deve rimanere ultimo” e credo che a New York questo bisogno sia amplificato. Ora va declinato tecnicamente il progetto che ha saputo coalizzare tanti».

In Italia sarebbe pensabile un sindaco di Milano o Roma con origini non italiane, figlio di immigrati o trapiantato qui?
«Per l’Italia auspico anzitutto che gli eletti siano amministratori capaci e non sono le origini a connotare questa peculiarità. Questo credo farebbe felici molti, gli italiani e i Comuni. Siamo molto lontani ma questa non è una valutazione negativa, è una constatazione che parte dal fatto che la nostra storia è stata molto diversa da quella di New York, che ha una storia particolarissima come nessuna altra città. Agli italiani basterebbero persone che una volta elette, anche dal punto di vista concreto, siano in grado di attuare i programmi e rispondere alle attese dell’elettorato su grossi temi, come è lecito che sia».

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