Un’idea di patria ritrovata
I sondaggi di opinione e di gradimento sono più o meno concordi nel definire il fenomeno, ma la tendenza di fondo sembra chiara: più amor di patria, meno ostilità verso lo straniero. Non paia una contraddizione: il primo sentimento, “a favore” della propria patria, può non essere “contro” un’altra patria, o quasi. La ragione prima è assai semplice: ci siamo ritrovati tutti sulla stessa barca. Se agli inizi dell’epidemia, poi trasformatasi in pandemia, s’era aperta una certa competizione internazionale − «noi non verremo colpiti dal coronavirus come tal Paese», oppure «guarda che disastro che accade in talaltro Paese, non sono capaci di fermare un virus» − spinta da sentimenti di egoismo nazionalistico, poco alla volta i dati si sono rivelati impietosi nel definire l’allargamento generalizzato degli effetti nefasti del virus, almeno nella parte definita “più ricca” del pianeta. E abbiamo dovuto accettare l’evidenza dell’essere tutti uguali.
C’è poi stato un elemento politico che ha giocato, seppur con alcuni distinguo: ogni Paese, guardiamo in questo momento in particolare all’Europa, ha preso misure di contenimento della pandemia per proprio conto, in modo assolutamente non concordato, come la chiusura delle frontiere, la caccia alle mascherine e ai tamponi a scapito degli altri Paesi, o il decreto di lockdown dell’intera società. Alla fine, però, ci si è trovati tutti a prendere misure analoghe, col colpevole ritardo di alcuni che hanno poi pagato il tributo più alto in vite umane e in costi sociali.
Ora lo stesso fenomeno sta avvenendo per la riapertura, col solito disordine ma con un occhio attentissimo di ogni singolo Paese all’agire dei vicini: se a chiudere si sono ottenuti effetti immediati, a riaprire le frontiere solo da un lato non si otterrebbe assolutamente nulla. Serve reciprocità, Lapalisse direbbe che le frontiere hanno sempre due lati. Anche nella scelta delle misure economiche per far fronte al blocco delle economie e impedirne il loro collasso, il principio di cooperazione sta in fondo funzionando meglio che in altre occasioni. Forse tutto ciò ancora è vago, è tutt’altro che definito, ma qualcosa di positivo mi sembra sia successo sul serio. E anche qualche seppur minimo spontaneo aiuto internazionale ai Paesi nel bisogno è stato registrato, fatti nuovi.
I politici, certamente sensibili ai sondaggi di opinione, hanno tenuto conto del pensiero e dei sentimenti dei loro concittadini. Hanno cioè visto che cresceva l’attaccamento alla propria patria, e non solo ai propri interessi, patria considerata come luogo di condivisione di vantaggi così come di svantaggi. Ma senza andare contro nessuno, senza crociate, senza cercare capri espiatori. Numerosi sono ad esempio i Paesi che hanno regolarizzato le posizioni degli immigrati; ci sono state misure, imperfette ovviamente, di sostegno ai più sfavoriti all’interno di ogni Paese; si sono moltiplicate le opere di solidarietà per chi non ce la faceva più; si sono applaudite le professioni più esposte al virus, talvolta pure considerate minori sulla scala sociale, non solo i medici, dunque, ma anche gli spazzini, le forze dell’ordine, i panettieri.
Insomma, questa duplice tendenza – da una parte il coordinamento tra Paesi diversi, dall’altro la solidarietà all’interno di una patria – ha guidato, almeno in Europa, ma non solo, le misure necessarie a limitare gli effetti nefasti del coronavirus, e ora il ricominciare a vivere nella normalità. Anche i media hanno contribuito al fenomeno, gridando un po’ di meno − «ma che te strilli, siamo tutti inguaiati» −, offrendo più oggettività − «dicci come stanno veramente le cose» −, dando meno spazio al politico e più all’amministratore − «che sia di destra o di sinistra, basta che serva il bene comune» −, contribuendo quindi a creare un clima più attento alla verità delle cose.