Un’Europa in cui credere

Non è stato un voto europeo. Sia nella sensibilità degli elettori, sia nelle attese delle forze politiche, nelle elezioni del 12 e 13 giugno ha prevalso in ciascun paese l’attenzione ai problemi di casa propria. È vero che il sistema elettorale proporzionale favoriva una sorta di conta delle forze dei diversi partiti: e in effetti le recenti elezioni sono state vissute, a livello nazionale, come un test intermedio fra due elezioni politiche locali. Tanto è vero che in tutta Europa i giornali hanno aperto, generalmente, trattando i risultati elettorali dal punto di vista interno, e si sono dedicati al parlamento europeo nelle pagine successive. È un’ottica sbagliata, che deforma la stessa interpretazione del voto. Ci si dimentica, anzitutto, che i raggruppamenti delle forze politiche nel parlamento europeo hanno una logica propria e corrispondono solo in parte agli schieramenti nazionali; e che la composizione del parlamento europeo è destinata in futuro – ma già oggi, in parte, è così – ad influenzare quella dei parlamenti internazionali, e non viceversa. Bisognerebbe dunque, quanto prima, imparare a guardare al proprio paese dall’Europa. Un ulteriore rafforzamento di questa dimensione localista viene dalla generale sconfessione dei governi in carica. Salvo poche eccezioni, i cittadini hanno premiato le opposizioni, che fossero di destra o di sinistra. Ne emerge un dato significativo: la posizione dei vari governi in merito alla guerra irachena – che, pure, vede contraria la grande maggioranza dell’opinione pubblica europea – non è stata determinante: sono stati sconfitti l’inglese Blair, favorevole alla guerra, come, dall’altra parte, il francese Chirac e il tedesco Schroeder, il primo di destra, il secondo di sinistra, entrambi contrari alla guerra. La questione irachena è proprio una di quelle che ha messo in evidenza l’incapacità dell’Unione europea di muoversi sullo scacchiere internazionale come un soggetto politico unico: il fatto che gli elettori l’abbiano sostanzialmente trascurata, che i problemi nazionali siano stati al centro del voto, ci rivela le condizioni attuali del progetto politico europeo, che presenta preoccupanti indicatori di crisi. Uno di questi, che si assomma all’incapacità (finora) di una politica estera comune, è l’astensionismo dei paesi nuovi entrati nell’Unione, dove ha votato un elettore su tre. La delusione e la disaffezione, seguite agli entusiasmi iniziali di questi popoli, denuncia la difficoltà di varare una efficace politica di sviluppo del continente. Sul piano della politica estera, l’istituzione di un ministro degli Esteri europeo, prevista dalla nuova costituzione, vorrebbe essere il segno di una volontà di cercare, nel futuro, una linea di azione internazionale comune. Ma questa intenzione si potrà realizzare solo se tutti i nuovi paesi verranno convinti, coi fatti, che il loro futuro è meglio garantito da una convinta e fedele partecipazione all’Unione europea, piuttosto che dalla ricerca di rapporti individuali e privilegiati con gli Stati Uniti. Politica estera e sviluppo interno risultano, così, indissolubilmente legati. Un altro indicatore di crisi è il sorgere di partiti dichiaratamente antieuropei, anch’essi legati alle delusioni e ai timori nazionali di fronte al progetto continentale. Dal punto di vista numerico, questi nuovi partiti non fanno paura: il gruppo popolare (Ppe) ha ottenuto 276 seggi, quello socialdemocratico (Pse) 200, i liberaldemocratici 67: i tre maggiori gruppi parlamentari sono convinti europeisti e hanno la forza – in un parlamento che conta 732 seggi – per rintuzzare eventuali attacchi disgregativi dell’Unione. Ma rimane il segnale di pericolo: che i partiti antieuropeisti scompaiano, o che si rafforzino, dipenderà dalle scelte dei prossimi anni. L’Unione europea ha dunque davanti a sé alcune sfide, che possono minacciarne la sopravvivenza, ma anche rilanciarne il progetto. E il cuore della questione, ci sembra, sta in questo: la nuova Europa, se vuole essere davvero un soggetto politico, deve avere un’anima; e l’anima non si inventa politicamente, ma la politica la riceve dalla cultura e dalla società. Per questo il grande incontro dei movimenti cristiani a Stoccarda è stato tanto importante: ha dimostrato che l’anima del continente è viva e attiva. È certamente cristiana, ma senza chiusure e fondamentalismi: è capace di dialogare e di accogliere il diverso, di valorizzare la pluralità delle prospettive componendole in una unità rispettosa delle distinzioni. Oggi, questa identità sembra appannata. La difficoltà di inserire nel Preambolo della Costituzione il richiamo alle radici cristiane, di compiere, cioè, un elementare riconoscimento della propria identità, lo testimonia. E certamente, come mette in evidenza Pasquale Ferrara nel suo articolo, la difficoltà è legata a interpretazioni politiche che, spesso, non entrano nel merito effettivo del problema. Altre volte, le valutazioni storiche sembrano poco equilibrate: il presidente francese Chirac, ad esempio, al recente Consiglio d’Europa ha ironizzato nei confronti di chi chiedeva il riferimento al cristianesimo; ma lo stesso presidente, in occasione dell’anniversario del Grande Oriente di Francia, ha esaltato l’importanza e il ruolo della massoneria nella storia del suo paese: il paese, non dimentichiamolo, di Giovanna d’Arco e di Vincenzo de’ Paoli, delle centinaia di preti della Gioventù operaia franceseche, volontariamente, accompagnarono gli operai deportati nei lager nazisti; il paese di Schuman, la cui causa di beatificazione è in fase avanzata, e che con la sua Dichiarazione diede inizio all’avventura dell’unità europea: chi ha pesato di più nella storia di Francia, il cristianesimo o la massoneria? L’avvenimento di Stoccarda, che ha visto la presenza anche di personalità politiche di diversi paesi e diversi schieramenti, va preso molto sul serio, proprio perché, alla radice dei problemi politici, c’è la questione dell’identità e della cultura del continente. Le sfide attuali non si vincono con la politica bassa, ma con un grande rilancio degli ideali fondativi dell’Europa politica: il suo progetto riuscirà, se cittadini e politici si convinceranno che esso continua ad essere portatore delle grandi idee di solidarietà e di pace che avevano ispirato la nascita della Comunità europea del carbone e dell’acciaio: non soltanto un’intesa economica, ma un atto di fraternità tra vincitori e vinti della Seconda guerra mondiale, teso a rendere impossibile una nuova guerra, e a portare la pace anche nel resto del mondo. È questo ideale fondativo che ha comunicato lo stile di dialogo attraverso il quale si è costruita l’Unione europea, come mette bene in evidenza l’articolo di Ferrara. E per portare avanti un tale ideale è necessario scegliere gli uomini adatti, come spiega, nel suo intervento, Paul Justaerds. L’attuale Costituzione è la prima: complicata, farraginosa, elefantiaca; eppure, terribilmente importante: è la nostra Costituzione. Sappiamo che, un giorno, dovremo riscriverla: più semplice, più entusiasmante, più europea. Non sarà la nostra generazione a farlo. Lo faranno i nostri figli, che solo da noi, però, possono ricevere un’Europa in cui credere.

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