Un’Europa fortezza e un’Italia blindata?
Vi sarete sicuramente accorti che nell’ultimo periodo è scomparsa dal vocabolario del presidente Napolitano una parola che per noi riveste cruciale importanza: dialogo. È molto probabile che la scelta sia stata dettata dall’intenzione di voler evitare che il termine, con l’uso ripetuto, finisca per risultare inflazionato sino a suonare inutile.
Non vi saranno sfuggiti neanche i dati Istat, appena usciti, che ci dicono che l’economia del nostro Paese ha compiuto nei primi tre mesi del 2009 un passo indietro del 5,9 per cento: il risultato peggiore dal 1980. Per di più, aggravato dal fatto che si tratta del quarto trimestre negativo di fila. Gli appelli alla fiducia da parte del governo sono perciò opportuni, ma è ardito sostenere che la crisi sia soprattutto “psicologica”. Piuttosto, non tocca tutti gli italiani, ma la difficile situazione di chi è aggredito non può essere liquidata con tanta fretta.
Avrete anche seguito i “respingimenti” di alcuni barconi di immigrati che hanno suscitato marcate reazioni anche da parte dell’Onu e dei vescovi italiani. Ed è su questo tema che vogliamo soffermarci.
La mano forte dell’esecutivo riflette la logica presente nei provvedimenti sull’immigrazione clandestina contenuti nel disegno di legge sulla sicurezza, approvato alla Camera a metà maggio. Se il Senato non apporterà modifiche sostanziali, l’immigrazione clandestina diventerà reato e verrà introdotta una serie di misure restrittive nella sfera dei diritti fondamentali e della dignità della persona. Fra le conseguenze, l’obbligo di denunciare l’immigrato irregolare per vigili urbani e impiegati pubblici, personale sanitario e insegnanti. Scelte che rischiano di favorire un clima di sospetto e di alimentare la clandestinità, anziché ridurla.
Gran parte delle misure previste nel disegno di legge manifestano un approccio al fenomeno che scarica la cultura dell’inclusione, sinora fatta propria da quasi tutti i governi europei. Tanto da segnare, come ha commentato il Corriere della Sera, «uno spartiacque sul piano dei valori prima che su quello politico».
È una dimostrazione di forza o un atto di debolezza? Sentir dire al presidente Berlusconi che l’Italia non deve essere multietnica suona non tanto come la negazione di un dato di fatto, quanto il tentativo di rassicurare, provando ad ancorare il Paese ad una fisionomia che, piaccia o no, non gli appartiene più.
Purtroppo, invece, si moltiplicano segnali ed episodi di intolleranza e di violenza nei confronti degli stranieri, che evidenziano la diffusa percezione che la presenza degli immigrati abbia assunto dimensioni tali da provocare non solo preoccupazione ma persino allarme.
Ma quale Italia vogliamo in futuro? Un Paese che esclude? Immigrati relegati ad una questione di ordine pubblico? I diversi partiti non sono in grado, purtroppo, di presentare progetti lungimiranti. Eppure sembra proprio che la storia ci ponga davanti ad un bivio: chiudersi, a dispetto dei fenomeni in corso, o invece tentare di coniugare – come a noi piace – giustizia e legalità con solidarietà e accoglienza, non solo nel nostro Paese, ma anche in Europa e nel rapporto con il Sud del mondo.
Nessuno di noi può stare a guardare. Tanto meno all’avvicinarsi di una consultazione elettorale, come quella di giugno. Sia il voto europeo che quello provinciale e comunale (laddove si svolgono) permettono ancora il nostro pieno esercizio di elettori. C’è infatti la possibilità di utilizzare lo strumento della preferenza, a differenza di quanto, purtroppo, accade nelle elezioni politiche. È uno strumento che invita a conoscere e selezionare i candidati ad ogni livello prima ancora di accordargli fiducia e di accompagnarli, se eletti, nel corso del mandato. Una mancata partecipazione o una delega totale senza sostenere dialogo e legalità, solidarietà e centralità della persona, possono favorire l’orizzonte di un’Europa che preferisce blindarsi e di un’Italia, anche nelle sue dimensioni provinciali e comunali, che si chiude per paura.