Una vulnerabilità che chiama alla coesione
Dati e analisi accessibili a tutti per mettere a fuoco la situazione sociale ed economica del Paese.
Aumenta il numero di libri scritti da ottantenni che invitano i giovani a indignarsi e a reagire. Scorrendo i dati del Rapporto Istat 2010 insorge, infatti, una domanda: fino a quando parte di una generazione potrà rimanere distratta dalla libertà di fare, ad esempio, un volo low cost mentre, da anziana, riceverà, al mese, poche centinaia di euro? Se anche l’Inps, a differenza di quanto avviene in altri Paesi, non manda a tutti il calcolo sulla presumibile rata mensile della pensione, basta, per farsi un’idea, il dato Istat sulla costante diminuzione dell’occupazione giovanile negli anni 2009-2010 e la crescita di una categoria di giovani sfiduciati, tra i 15 e i 29 anni, che «non lavorano e non frequentano alcun corso di istruzione o formazione». Sono oltre due milioni nel 2010, con prevalenza di uomini e diplomati. Ma anche per chi trova un’occupazione con un contratto atipico è diventato molto più difficile il passaggio verso la stabilità. Sedici su 100, dopo un anno, nel 2010. Erano 26 nel 2007. È il fenomeno che alcuni studiosi chiamano “trappola della precarietà”, perché l’accettazione di qualsiasi lavoro, anche dequalificato, non conduce di per sé a una progressione di carriera o di stabilizzazione.
La definizione Istat di «occupati» non è quella di senso comune, ma si riferisce a «persone che nella settimana a cui si riferisce l’intervista hanno svolto almeno un’ora di lavoro retribuita». La riduzione degli occupati negli anni passati era determinata, perciò, dall’interruzione di quei contratti più fragili che avevano al contrario, in precedenza, alimentato un certo ottimismo in Italia. Nel 2010 il calo dei posti di lavoro (532 mila persone), invece, si è concentrato sulla tipologia «permanente a tempo pieno» dell’industria.
La «vulnerabilità del sistema Italia» si percepisce, secondo il presidente dell’Istat Enrico Giovannini, nella crescita, molto contenuta, di occupazione di bassa professionalità e nella diminuzione di figure di alta qualificazione. Questo «sottoutilizzo del capitale umano» si accompagna alle «persistenti difficoltà delle famiglie» che cominciano a intaccare il patrimonio e a indebitarsi. Il 15,7 per cento di esse vive una situazione di «deprivazione materiale», cioè di povertà. Si tratta di nove milioni di persone. Mentre si sta indebolendo uno dei pilastri che ha evitato, finora, il collasso del sistema, e cioè quella rete informale, di assistenza e cura, assicurato dalle donne che, tra l’altro, spesso, “devono” lasciare il lavoro alla nascita di un figlio. Questo vuol dire che molti anziani con gravi limitazioni non possono essere più aiutati «né dalle reti informali, né dai servizi a pagamento, né dalle strutture pubbliche». E per tale motivo i «necessari interventi volti al controllo della finanza pubblica non devono andare a discapito della capacità dei comuni di svolgere interventi socio-assistenziali».
In via generale, se alcuni settori del tessuto produttivo presentano segnali di ripresa, la parte del rapporto dedicata alla situazione italiana rispetto alla Strategia europa 2020 segnala la cronica carenza di investimento in ricerca e sviluppo.
«Sono i numeri che fanno la politica», osserva correttamente il ministro Tremonti. Ma dagli stessi dati emergono criteri di lettura e soluzioni diverse.
Il cattolicesimo sociale più avanzato, ad esempio, ha sempre lavorato scrupolosamente – si pensi a un Gorrieri – a partire dai dati di fatto in nome di un’uguaglianza da assicurare non solo ai nastri di partenza.
Per arrivare a «scelte difficili ma lungimiranti», sarebbe già molto partire, come dice l’Istat, da un «quadro informativo ampio e condiviso». Interessante, in questo senso, l’apertura, da parte dell’Istituto di statistica, di un blog (http://blog.istat.it/) di discussione sui dati del rapporto annuale.