Una vita tra gli schiavi del crack
«Credo che tutto abbia avuto inizio nel cuore di Dio: avevo un sogno, quello di potere mostrare ai suoi figli che non si sentono amati che invece lo sono. Mi sono buttato nella grande periferia di Rio e mi sono incontrato con la dura realtà dei ragazzi, molti dei quali poi sono stati uccisi: 36 in un mese». Esordisce così don Renato Chiera, sacerdote originario di Mondovì, nel cuneese che in uno dei quartieri più poveri e pericolosi della città carioca ha fondato la “Casa do Menor”, una ong che ventidue comunità con 12mila bambini, tre asili, otto scuole, sedici officine professionali, otto case famiglia e tre mini ambulatori.
Tutto ha avuto inizio nell’anno della “Campagna della fraternità” indetta dalla Conferenza nazionale dei vescovi brasiliani contro la tratta degli esseri umani, che è successo?
«Avevo preso in casa mia un ragazzo che era stato ferito da una pallottola della polizia. Era tutto impaurito e poi è stato ucciso sulla mia porta di casa. Aveva lasciato scritto che si sentiva bene a casa mia perché si sentiva figlio amato da Dio. Poi un ragazzo minacciato anche lui di morte è venuto a chiedermi aiuto e m’ha detto: “Lo sai che hanno ucciso 36 persone questo mese? Ma ce ne sono 40 in lista per essere uccisi, io sono il primo e non voglio morire. Voi non fate niente? Voi non volete sapere quello che noi soffriamo per essere così cattivi?”.
Chi voleva ucciderli?
Gli squadroni della morte. Venivano uccisi perché coinvolti in furti, in droga e molte volte uccisi anche perché non confessassero quello che avevano fatto. Il grido di quel ragazzo è entrato nel mio cuore. Gesù voleva farmi capire: “Renato, è ora di non parlare tanto di Dio amore, ma di essere l’amore di Dio, pronto a dare la vita”. E così i ragazzi bussavano alla mia porta, non ero io a chiamarli, io dovevo solo farli entrare in casa. Li ho sistemati in un garage, ho tolto la macchina, perché, mi sono detto, “la macchina può dormire fuori, ma Gesù, in quei ragazzi, no”.
Come è nato il nome "Casa do Menor"?
I ragazzi dicevano: “Se vuoi mangiare, se vuoi avere un letto caldo, viene con me che c’è un padre che ci accoglie”. Allora la cosa è andata crescendo. Un giorno mi hanno detto: “Vogliamo chiamare questo posto “Casa do Menor”, perché noi non abbiamo casa, non abbiamo amore, non abbiamo famiglia, non abbiamo affetto, e perché siamo piccoli di età, ma siamo anche“de menor”, che in Brasile significa disprezzato, che non vali niente. Noi non valiamo niente, puzziamo, rubiamo, usiamo droga”. Una ragazzina mi ha detto: “Lasciami dormire in quel cantuccio!”. “Ma là dorme il cane!, ho ribadito”. E lei: “Ma io sono un cane!”. La “Casa do menor” è nata perché i figli del Brasile e del mondo non si sentissero cani, ma figli amati da Dio. Noi abbiamo ascoltato il loro grido. , per fame, per mancanza di scuola, di professione, di lavoro, di casa. Ma il grido più forte che abbiamo sentito è quello diretto a qualcuno che li facesse sentir figli.
Chi sono questi bambini?
Sono ragazzi che non hanno papà e mamma, non hanno famiglia, non hanno una comunità. Secondo me la grande tragedia non è essere poveri, è non sentirsi figli, che vuol dire che nessuno mi ama e questa è la più grande violenza che facciamo a questi ragazzi. E loro rispondono con la violenza: sono mostri che uccidono a tutto spiano. Perché? Ci restituiscono quello che noi abbiamo dato loro. Io dico sempre che sono violenti, perché non amati. E questo vale anche per quelli che sono finiti nel tunnel della droga.
Lei ha fatto dell’amore un percorso terapeutico. In che modo?
Io dico loro: “Il tuo motore va avanti con la benzina dell’amore, allora se non ti hanno messo benzina papà e mamma, mettila tu adesso. Se la metti tu, se ti lanci ad amare tu, vedi che incominci a funzionare, perché tu funzioni a benzina amore”. Noi li aiutiamo, li alleniamo a voler bene tutti i giorni.
Come succede?
Bisogna allenarsi ad amare. Non è facile. Nessuno insegna ad amare. Ai nostri ragazzi nessuno insegna ad essere felici. Il papa dice che la società da molte occasioni di piacere, ma non dà la felicità, perché si è felici se amiamo. Però l’essere umano è egoista e la persona egoista che vive per sé non sarà mai felice. Allora quest’arte di amare è un allenamento dall’inizio della giornata. Chiara Lubich ha ideato, soprattutto per i ragazzi, un dado, che sulle sue facce riassume in pillole il Vangelo. Quando i ragazzi incominciano a vivere ogni giorno una frase alla volta, cambiano la loro vita. Questa dimensione è essenziale, altrimenti non c’è cambiamento. Facciamo anche corsi professionali, laboratori artistici per aiutarli a scoprire strade di inserimento nella società.
Ci racconti chi sono gli ospiti delle sue comunità in questo momento?
L’altro ieri ho trovato un ragazzino che a dieci anni aveva già ucciso una persona. Mi ha detto: “A 10 anni sono entrato nel narcotraffico, perché la polizia ha ammazzato il mio papà davanti a me e ho deciso di unirmi a questa banda per uccidere quel poliziotto”. Adesso ha 16 anni, da quando ne aveva 14 è diventato il capo. Dopo aver ucciso la prima persona si è sentita molto male, ma poi ne ha uccisi altri e non gli ha più fatto effetto. Prima di venire da me, aveva ucciso un altro ragazzo di 10 anni. Ora è là con noi.
Una violenza senza fine…
Nelle grandi città come Rio o San Paolo è quasi una moda. Si prende il ragazzo che ha rubato la bicicletta o il cellullare, lo attaccano al palo, incominciano a picchiarlo. Se non arriva la polizia, lo fanno fuori. Adesso si vuole ridurre l’età per entrare in carcere da 18 a 14, ma sono loro stessi a dirti che la detenzione genera ancora più violenza. Questi ragazzi vogliono morire, entrano nel narcotraffico, perché vogliono buttare via la rabbia che hanno in corpo. Per loro uccidere è un valore, rubare è un valore. C’è chi a 14 anni comandava uomini di 30 e ha nascosto un carico di cocaina che ha fruttato 12 mila reali, ma ora il capo della favela vuole ucciderlo. Questi ragazzi entrano nel narcotraffico per essere qualcuno, per avere soldi e vengono usati come macchine per uccidere, a loro volta. Ora usano il crack che crea una dipendenza immediata e uccide poco per volta e io sento la mia impotenza di fronte a questa nuova tragedia.
Le favelas per i mondiali sono state letteralmente occupate dalla polizia, con altrettanta forza e determinazione rispetto ai capi criminali. Cosa fa la Chiesa in questo contesto?
Queste sono le piaghe di Gesù in croce, che vive l’abbandono. Io sto facendo questa esperienza nella “cracolandia” di Rio, dove la polizia sta scacciando tutti perché vuole fare pulizia. Io sono là con questa gente, con i bambini e con gli adulti: sono una presenza che porta una presenza più grande, quella di Cristo, che c’è già perché in quel dolore, Lui c’è. Una sera ho fatto l’adorazione e dopo questo momento cinque persone hanno chiesto di uscire dal giro. Non basta la polizia, serve anche l’azione di Dio per un radicale cambiamento.