Una vita spesa per il dialogo
Nel quinto anniversario della morte di don Andrea Santoro, avvenuta in Turchia per mano di un fanatico, il ricordo della sorella Maddalena
È domenica 5 febbraio 2006, primo pomeriggio. Siamo a Trebisonda, in Turchia. Don Andrea Santoro, parroco italiano fidei donum, inviato cioè dalla diocesi di Roma come sostegno pastorale alla chiesa turca, è in ginocchio. Sta pregando. In chiesa, un’altra manciata di fedeli e qualche “strana” presenza che entra ed esce. All’improvviso, un uomo entra con la pistola in pugno. Don Andrea lo intravede, grida al suo aiutante di mettersi in salvo. Poi si sentono gli spari. Don Andrea, colpito alle spalle, stramazza al suolo. Aveva 61 anni. In Turchia si era molto impegnato nel dialogo con i musulmani e con i rappresentanti di altre religioni.
La sua uccisione ebbe una vasta eco, in Italia e in Europa. Un giovane confessò di aver ucciso il sacerdote come reazione alle vignette satiriche su Maometto apparse qualche tempo prima su un quotidiano danese, ma la verità su quell’omicidio non si è mai davvero saputa. La famiglia del sacerdote perdonò il suo assassino. La Chiesa parlò di lui come di un martire della fede, destinato alla santità.
A cinque anni di distanza, il ricordo di don Andrea è ancora vivo. Per lui, sono state organizzate veglie di preghiera e celebrazioni eucaristiche in Italia e in Turchia. Maddalena Santoro, docente universitaria e sorella del sacerdote, oggi sarà con altri tre italiani e molte altre persone accorse da tutta la Turchia, a Trebisonda, per partecipare alla messa delle 15.30 nella chiesa di Santa Maria, la stessa, spiega, «dove don Andrea è stato parroco prima di essere ucciso».
Professoressa, suo fratello era contento di essere andato in Turchia perché riteneva che in Oriente si potesse ritrovare la radice originaria della fede. E lì, ha trovato il martirio…
«Stiamo meditando proprio su questo, negli ultimi giorni. Il martirio è una forma di testimonianza. Nel diario che scrisse nell’Ottanta, don Andrea chiedeva a Gesù: fa che io non desideri il martirio inteso come fare cose grandi, ma il martirio di ogni giorno, abbracciare la croce nell’abbracciare gli altri, con le loro spine. Don Andrea voleva dare il suo piccolo contributo andando incontro al martirio come fecero gli apostoli, voleva seguire la loro strada. Non so se il Signore ha voluto preparare una corona anche per lui. Del resto tutti i cristiani, in queste terre, sanno che può succedere la stessa cosa anche a loro. Sanno che possono dover dare la vita, come accadde a Gesù».
Don Andrea è stato definito da tutti un uomo del dialogo, non solo con le altre religioni, ma anche con i poveri, gli emarginati.
«La sua era un’apertura a tutto tondo, un essere finestra, un essere ponte per poter unire. Il dialogo con le altre religioni, tra islam, ebraismo e cristianesimo, era per don Andrea la possibilità di un prezioso scambio di ricchezze, e al dialogo ha dedicato tutta la vita. Nel suo diario di viaggio nella terrà di Gesù, degli anni Ottanta, scriveva di aver riscoperto la freschezza del sacerdozio aprendosi a tutti. Per lui, gli ultimi erano coloro che gli stavano vicini. Quindi le donne di strada, arrivate in Turchia in cerca di lavoro, che però avevano trovato soltanto un’occupazione di altro genere, ma anche i disabili, i poveri. A Roma come in Turchia, don Andrea si dedicava a tutti coloro che gli stavano vicino, qualunque disagio avessero».
Lei parla di suo fratello come di don Andrea. Perché?
«Certamente don Andrea (sorride) era anche mio fratello, ma riconosco, chiamandolo così, quello che era per tutti: un pastore, un padre, una guida spirituale. Ecco perché il suo nome è diventato anche per me don Andrea».
Un ricordo in particolare che ha di suo fratello?
«Ricordo che sin da piccolo aveva scelto, aveva deciso di diventare sacerdote. Ricordo questa sua vocazione molto profonda, questa sua radicalità nel perseguire la sua chiamata nell’uniformarsi a Cristo. Era molto radicale, ma anche molto aperto, accogliente nei confronti degli altri. Era disponibile per tutti a qualunque ora e in qualunque momento. Come sorella ricordo soprattutto queste sue caratteristiche. Il sacerdozio era radicato in lui sin nel midollo delle ossa».
Qual è il messaggio che ci ha lasciato don Andrea?
«Non solo io come sorella, ma anche gli ex parrocchiani e i membri dell’associazione don Andrea Santoro, abbiamo sentito tutti fortemente il bisogno, con la sua morte, di riscoprire fino in fondo il nostro cristianesimo. Credo che sia dovuto all’ansia che aveva don Andrea di riscoprire le radici cristiane dell’Occidente per viverle pienamente, perché vanno vissute, non considerate soltanto parole scritte. Sono parole viventi. Don Andrea diceva: “io voglio dare la mia carne a Cristo perché sia ancora qui”. Lui era molto preoccupato per l’Occidente, perché il cristianesimo deve essere radicato nella croce e nella resurrezione dio Cristo e non negli ideali un po’ fatui che ci sono oggi. Io mi auguro che questo volersi radicare in Cristo possa essere davvero presente in tutti, come un richiamo che viene dall’offerta di don Andrea, e dal suo aver versato il sangue, come Gesù, per tutti».