Una Via Crucis per Noto
La sua Via Crucis Noto, gioiello siciliano barocco, l’ha già avuta. Nel 1996 crollarono il tetto e la cupola della cattedrale. Fu uno choc. Ora tutto è stato rifatto e la chiesa si va arricchendo di opere d’arte contemporanea. Vittorio Sgarbi, insieme ad altri, ha pensato di affidare l’esecuzione della Via Crucis ad un giovane talento, già famoso, Roberto Ferri, classe 1978.
Ferri è tarantino ed ha l’arte classica nel sangue. È meridionale ed ha Caravaggio e il barocco nell’anima. È innamorato della bellezza, ed ha Michelangelo, Guido Reni nella mente e nelle mani. Ma è uomo di letture e riflessioni – spesso sulla ricerca dell’uomo interiore, di matrice agostiniana – e sa passare da Moreau a de Chirico e a Dalì, e a molti altri. Eclettico, accademico?
Ferri in realtà è sè stesso. Nello studio della piccola e silenziosa cittadina di Sutri nascono le sue visioni, dove realtà, idealità, mistero e onirico si attraggono, si compenetrano, dando vita ad un’arte che è fortemente corporea, luminosamente fisica, chiaramente metaforica e nello stesso tempo realistica. Sogno, realtà, riflessione si “combinano”, con la chimica dell’intuizione fantastica, in tele dove l’olio vede la gradazioni del colore e delle luci dal tenue al caldo, in raffigurazioni che dai sensi fisici passano a quelli intellettuali.
Ferri ha creato angeli e demoni caldi come corpi barocchi o come modelli di Armani, in un tripudio fisico ed emotivo intenso. Ma non è un esteta fine a sé stesso. Il simbolo, talora oscuro, talaltra chiaro, dà vigore e forza spirituale alla sua galleria di immagini, come il solitario Lucifero, il lacrimoso san Girolamo, lo struggente neoclassico Requiem.
Le quattordici piccole tele della Passione per il duomo di Noto camminano su questo filo fisico e spirituale. Il Cristo è soprattutto un corpo – bello e di una bellezza che è già preludio di resurrezione –, ma piagato da strisciate sanguinose: solo più spesso o con due, tre persone. Il modello non è sempre lo stesso, anche se le forme del volto ripetono quelle della tradizione.
Ci sono momenti di dolore composto, intenso: Gesù è caricato della croce, solo, sul deserto sconfinato di un cielo afoso, sembra portare il dolore del mondo.
Cristo incontra sua madre, appoggiata ad un tronco rugoso, da cui si sporge un ramo come un aculeo (simbolico?) pungente. Si guardano, la madre e il figlio, si “sentono” parole dolorose e di conforto.
Commosso e triste, Cristo dà a Veronica il panno su cui è impressa la sua immagine, sempre sotto questa cappa di cielo plumbeo, che ricorda certi cieli del Tintoretto.
Mirabile La terza caduta di Gesù, di cui Ferri presenta solo la schiena insanguinata, battuta da una luce chiara e violenta: forse il momento più alto del ciclo, per sinteticità poetica, dramma contenuto, forza spirituale. Ed infine, il Cristo deposto, memore dei Carracci, dal corpo luminoso e la bocca atteggiata ad un sorriso sereno, mentre di lontano un barbaglio di luce prelude alla resurrezione.
Alla fine di questo percorso doloroso, della sofferenza resta il ricordo nel rosseggiare del colore, ma a dominare è la luce calda, vibrante di una umanità che non può mai essere sconfitta, perchè sa di essere vincitrice della morte. Anche questa è fede.
Roberto Ferri. Noli foras ire. Roma, Palazzo delle Esposizioni. Fini al 2/6 (catalogo Giunti)