Una tregua da confermare

L’Egitto garantisce il cessate il fuoco tra Hamas e l’esercito israeliano. Un passo in avanti da verificare per trasformare una tregua che appare fragilissima in un vero accordo di pace. Il ruolo degli Stati Uniti d'America e dei leader emergenti: oltre al presidente egiziano Morsi, entrano in gioco anche il premier turco Erdogan e l’emiro del Qatar Al Thani
conflitto striscia di gaza israele

Finalmente, dopo una giornata convulsa, scandita dalle deflagrazioni nel bus israeliano esploso a Tel Aviv dinanzi, ironia della sorta, al ministero della Difesa, e dopo un’altra giornata di intensi e sanguinosi bombardamenti della Striscia, il ministro degli Esteri egiziano e il segretario di Stato statunitense hanno dichiarato che al Cairo che la tregua c’era, finalmente, e che dalle ore 20 del 21 novembre le armi avrebbero cessato di far sentire il loro ringhio. Nell’accordo, tra l’altro, si trova la menzione della cessazione del lancio di missili più o meno artigianali da parte di Hamas verso il sud d’Israele e della riapertura dei valichi di frontiera tra la Striscia e il territorio israeliano.

La questione ora è quella di confermare una tregua che appare fragilissima, grazie ad un serio lavoro diplomatico. Un lavoro complesso e multilaterale, in cui sono scesi in campo non più solo le parti in causa – Israele, Autorità palestinese, Hamas e, se si vuole, gli Usa – ma anche i tre personaggi emergenti della regione, coloro che in qualche modo hanno l’ambizione di diventare leader regionali: il neo-presidente egiziano Morsi, il premier turco Erdogan e l’emiro del Qatar Al Thani.

In diversa misura e per ragioni non sempre coincidenti, i tre leader crescenti hanno interesse a sposare la causa palestinese, quella di Hamas ma non solo, senza però rompere con Israele, senza il quale è impensabile poter assurgere allo status di leader regionali. E a rinnovare la loro alleanza strategica con Obama e gli Stati Uniti, che hanno bisogno di dimostrare di non essere impotenti nel trattare il dossier israelo-palestinese: non per niente Hillary Clinton, nella sua ultima missione come capo della diplomazia statunitense, è stata tra i principali artefici della tregua.

Infine, grandi assenti nelle trattative sono stati l’Iran – che sembra essere stato sostituito dal Qatar nella funzione di principale finanziatore e sostenitore della causa del partito che guida la politica nella Striscia –, e i palestinesi del presidente Abu Mazen, che paiono essere stati messi all’angolo: si parla ormai apertamente non più di “due popoli, due Stati”, ma di “due popoli, tre Stati”, contando cioè sulla ormai sancita divisione tra la Striscia e i Territori palestinesi.

In tutto questo fervore diplomatico, che fortunatamente pare aver costretto al silenzio le armi, si rischiano di dimenticare le sofferenze dei civili coinvolti in questa recrudescenza bellica; si rischiano di dimenticare i 140 morti nella Striscia e i cinque in Israele, le migliaia di feriti di Gaza e l’incubo vissuto dalle popolazioni degli insediamenti israeliani nel Sud del Paese, a pochi chilometri dalla Striscia. Non vanno dimenticati i pianti e le grida, gli occhi atterriti e le mani protese dei bimbi, perché la tregua tenga. È innanzitutto pensando a loro che le armi dovranno tacere.

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