Una tragedia annunciata
“Lo dicevamo noi, lo dicevamo “. Si porta le mani alla testa Rosi alle prime notizie sul terremoto che ha colpito l’Algeria, lei che ci ha vissuto per tredici anni, fino all’84. “Povera gente – continua – costretta dalla crisi abitativa a stiparsi in agglomerati squadrati e senza alcuna comodità, che loro stessi definivano cage à lapin, gabbie per conigli “. Le costruzioni erano sorte velocemente, racconta. I tir arrivavano carichi dei moduli prefabbricati di pareti sottili che, messi l’uno sull’altro, edificavano le case. In una zona ad alto rischio sismico. Una tragedia annunciata. Duemila e più morti per un terremoto che ha polverizzato interi palazzi e quartieri. La disperazione si mescola alla rabbia. Perché molto poteva essere evitato. Lo conferma, quasi un’ironia della sorte, appena qualche giorno dopo, il terremoto in Giappone di uguale intensità e di durata più lunga che non provoca che qualche ferito. Nel paese maghrebino, invece, la forza della natura ha agito sulla complicità dell’uomo e non c’è stato nulla da fare. Per tanti, per troppi. “Ho vissuto il terribile terremoto dell’80 in Algeria – mi scrive Mariba Zimmermann che adesso vive in Giappone – ed ora anche qui, dove siamo (quasi) abituati ai terremoti che sono molto frequenti, anche se non così forti come quello dell’altra sera. Devo dire che in Giappone non ho paura perché le case sono costruite con criteri anti-sismici: sia i grattacieli che le casette, quelle di legno che periodicamente – ogni 30 anni – vengono buttate giù e costruite di nuovo. “La grande differenza che mi è balzata evidente rispetto all’Algeria è forse proprio questa: lì le case in genere non sono costruite per sopportare le scosse dei terremoti, e penso che ciò sia dovuto soprattutto ad un fattore economico. “Un altro aspetto riguarda l’istruzione che viene data alle persone in caso di catastrofe (incendio, inondazione”). Non mi pare che sistematicamente venga inserita nei programmi delle scuole o università algerine con delle esercitazioni pratiche e periodiche, con un piano di emergenza, con punti di raccolta, come si dovrebbe fare in ogni paese ad alto rischio sismico. “Bisognerebbe che il mondo fosse più unito per imparare davvero gli uni dagli altri”. Che non si tratti di impressioni solitarie di osservatori stranieri ce lo conferma un’e-mail da Algeri arrivata in redazione in questi giorni: ” Oltre al dolore immenso per la perdita così pesante in vite umane (più di 2200) e i numerosissimi feriti (10 mila circa), si sente in tanti, direi in tutti, la rabbia, perché effettivamente non sono state prese sufficienti misure di precauzione in un paese come questo che con i terremoti dovrebbe essere abituato a convivere. E dire che già una quindicina di anni fa c’era stato un altro gravissimo terremoto, in un’altra zona a circa 200 chilometri ad ovest della capitale, che aveva fatto un grande numero di vittime. Sembra che ci siano grosse responsabilità di costruttori senza scrupoli e di governanti che non hanno saputo fare rispettare le leggi sulla costruzione. È vero che accanto a palazzi che si sono accartocciati ce ne sono altri che hanno resistito; però tante, tantissime case, pur non essendo distrutte, sono inagibili perché pericolanti e rischiose per problemi precedenti mai risolti. Ma la gente, non avendo dove andare, ha dovuto rassegnarsi a vivere lì. Quindi certamente il numero delle vittime poteva essere più limitato”. Mentre le linee telefoniche funzionano a intermittenza, cerchiamo di raggiungere alcuni amici del Movimento dei focolari che sappiamo in prima linea nell’affrontare l’emergenza. Viledi e Maria Teresa ci informano che gli aiuti si sono messi in moto con difficoltà, soprattutto di coordinamento, mentre la gente si muove con spontaneità. Tanti si sono mobilitati per portare i soccorsi e continuano a farlo. Mancano i mezzi adeguati, che dovrebbero esserci in paesi soggetti a queste catastrofi: gru insufficienti (si scava con le mani e con i badili tra le macerie di palazzi di 10 piani…), carenza di tende, di mezzi sanitari di soccorso… Sì, gli aiuti internazionali sono stati tempestivi e abbondanti, ci dicono, ma la difficoltà è piuttosto nell’organizzazione. Ci tengono a mettere in luce la grandissima solidarietà e la genero- sità del popolo algerino. Una della cose che ha funzionato per esempio è stato il ponte per le comunicazioni messo a disposizione dalle radio nazionali, che 24 ore su 24 hanno dato la possibilità di lanciare appelli per chiedere e ricevere notizie. Le quattro radio locali (in francese, arabo e in kabil), nella notte stessa del sisma hanno chiamato medici, infermieri, funzionari dei servizi elettrici e telefonici; hanno sollecitato la donazione di sangue; hanno cercato di tenere collegati tutti, anche per la ricerca dei sopravvissuti. 48 ore dopo il terremoto, ad esempio, hanno lanciato un appello per un bambino di un anno e mezzo che aveva perso l’intera famiglia. Mezz’ora dopo un’altra famiglia si offriva di adottarlo. Ma come si vive una tragedia simile, chiediamo. “Quello che più serve forse – ci rispondono – non è solo materiale, ma soprattutto farsi sentire vicini, compartecipi del dolore. Ieri, siamo state lì: basta scambiare poche parole e subito ti portano a farti vedere la loro casa, tutto quello che hanno perso. C’è chi è traumatizzato perché ha visto crollare la casa sulla propria famiglia, bambini che devono andare a fare il riconoscimento delle spoglie dei genitori… E tutto questo dolore, immenso, chiede di essere accolto, condiviso. Altrimenti è insopportabile. E poi c’è la domanda di fondo: “Perché? Non ci bastava quello che abbiamo avuto fino adesso?”. Basta ricordare che nel novembre 2001 qui ad Algeri un’inondazione ha fatto parecchie centinaia di vittime – e anche quella volta si parlò di gravi negligenze dei governanti -, senza contare gli anni di terrorismo… È un popolo provato che si interroga sul senso di quello che gli accade. “Siamo maledetti – diceva una signora davanti allo spettacolo desolante dei villaggi distrutti su un’area così vasta -. Come si fa adesso a dare una casa, un lavoro, una ragione di vivere e sperare a tutta questa gente? O la fede interviene o la domanda rimane senza risposta… “Ma la solidarietà sperimentata e vissuta come piena partecipazione potrebbe essere importante. In mezzo a tanta sofferenza abbiamo sperimentato che ci si incontra con ognuno in modo profondo, diremmo su un piano vitale, cosicché ci si sente davvero fratelli. Davanti alla vanità delle cose, cadono barriere e pregiudizi, ci si stringe in un’esperienza concreta di condivisione vera. Non conta più appartenere all’una o all’altra chiesa, essere cristiani o musulmani: si vive un’esperienza profonda di fratellanza, proprio sul piano dell’essere”. COME PARTECIPARE La Caritas in Algeria (riconosciuta come “Services Caritas” della Chiesa d’Algeria), si è immediatamente mobilitata per collaborare con tutte le altre forze, istituzioni, aiuti che provengono dall’estero, Ong, associazioni e tutte le forze, numerosissime, del volontariato civile per prestare i primi soccorsi. Sono moltissimi quelli che, pur non avendo avuto la casa distrutta, non si fidano a passarvi la notte. Infatti si registrano ancora molte scosse di assestamento. Si sta provvedendo ad una distribuzione di pane, latte, acqua, coperte… Accanto a questo bisogna dire che il volontariato civile dà ancora una volta prova di una grandissima solidarietà e generosità, organizzando ad esempio gruppi di cittadini per preparare, nelle case ancora agibili, grosse pentole di minestra da distribuire poi ai sinistrati. Le Caritas di molti paesi, tra cui anche quella italiana che ha messo a disposizione 25 mila euro, e molti organismi si stanno mettendo in contatto per offrire ingenti aiuti. Caritas Algeria ringrazia per la solidarietà e, in questa fase, per evitare problemi doganali, chiede di non organizzare né spedizioni, né convogli dall’Europa. Per sostenere gli interventi in atto (causale:Terremoto Algeria) si possono inviare offerte alla Caritas italiana tramite: c/c postale n. 347013; oppure: Cartasì e Diners telefonando a Caritas italiana 06/541921.