Una terra testimone di barbarie
Il Parlamento europeo ha proclamato l’11 luglio Giornata della memoria per le vittime del genocidio di Srebrenica, in Bosnia. “Cartolina dalla fossa”, di Emir Suljagić.
Ci sono dei luoghi sulla Terra, benedetta e maledetta Terra, che una volta visitati non cessano di “abitarti”, di tornare alla memoria nei momenti più impensati e nelle forme meno usuali. Luoghi che sono stati testimoni della barbarie e che continuano a testimoniarla, a futura memoria. Luoghi che hanno visto lo scatenamento dei sentimenti più bestiali che uomo possa sperimentare, ma anche dei sentimenti più profondi.
Uno di questi luoghi è Srebrenica, dove ebbi la ventura di inoltrarmi nel 2005, a dieci anni esatti dall’uccisione di più di 8 mila bosniaci musulmani da parte dei cetnici serbi. Era l’11 luglio 1995, data di una retata che pose fine all’esistenza autonoma di un’enclave bosniaca all’interno del territorio reclamato dai serbi. Una macchia che i vari Mladić e Karadić pretesero di lavare con uno dei più efferati genocidi che il suolo europeo abbia conosciuto. Certamente il crimine di guerra più efferato che il suolo europeo abbia conosciuto dalla fine della Seconda guerra mondiale.
A ricordare quei giorni, esce per Beit-Memoria un libro che non lascia indenni. È scritto da Emir Suljagić, un testimone e un sopravvissuto all’eccidio: Cartolina dalla fossa. Diario di Srebrenica (pp. 270, euro 20,00). Giovane proveniva da una cittadina del Nord del Paese. Assieme a migliaia di altre persone si era rifugiato nell’enclave di Srebrenica per sfuggire alle retate e alle operazioni tanto simili a quelle di una programmata “pulizia etnica” messe in atto dall’esercito cetnico. Tutti loro pensavano, meschini, che in quella città rimasta fieramente indipendente avrebbero trovato la tanto agognata salvezza.
Sappiamo bene, invece, come andò a finire: dopo tre anni di assedio, di continue scaramucce, di fame e di eroismo, di spaventose bestialità generatrici di altre bestialità, per una «leggerezza burocratica» delle truppe Onu di interposizione, in quel momento olandesi, le truppe del generale Mladić riuscirono a entrare senza opposizione nell’enclave, avviando una sistematica eliminazione di tutti i bosniaci musulmani presenti nel territorio. Eliminazione che avvenne nello spazio di alcune settimane. In totale più di 8 mila morti ammazzati. Non si saprà mai la cifra esatta.
Delle pagine di Emir Suljagić colpiscono soprattutto quelle in cui, con lucida capacità narrativa, lo scrittore-testimone racconta con profusione di dettagli e di ricordi significativi, la trasformazione degli assediati in uomini e donne condannati a morte in via preventiva. Gente lasciata “disumanizzarsi” giorno dopo giorno, mutando in una congrega sbandata di ladri, traditori, violenti. Per fame. Per terrore. Per abbandono.
Immaginate una stretta valle bombardata per tre anni da ogni parte, senza calendari né orari precisi. Immaginate gente che mangia una volta al giorno, poco e male. Immaginate delle incursioni aeree senza nessuna contraerea, ad attaccare casa dopo casa. Immaginate, solo immaginate. Perché le parole di Emir Suljagić non fanno immaginare, fanno rivivere la realtà. Cruda. Spietata. Intollerabile.
Di Srebrenica l’immagine che più mi torna in mente è quella delle case scarnificate, con lo scheletro di cemento armato – in ogni caso precario e artigianale – a cui sono rimasti attaccati a volte penzolante moncherini di muro. Gli altri mattoni sono stati prelevati, assieme a tutto ciò che eventualmente esisteva, ed ora compongono altri muri, magari quelli della casa del vicino serbo. Le parole di Emir Suljagić restituiscono in qualche modo questi mattoni.