Una terra da film
Il tema della terra unisce alcuni film di questa prima parte di Festa romana: una terra insanguinata e divisa, la superficie di una lotta e non di un pacifico incontro; un campo della contesa e della violenza, di una guerra più o meno dichiarata, a intensità più o meno alta, ma sempre luttuosa. La terra di un passato più o meno recente, ma sempre tristemente attuale, prezioso se afferrato per fare memoria, per controllare il demone della separazione – che sia razzismo o fratricidio – che abita in noi e scalpita per produrre violenza e distruzione.
Una terra insufficiente, nel migliore dei casi, a rendere felice una vita, se – ci dicono alcuni film visti in questi giorni – non è calpestata da vere e positive relazioni umane. Altrimenti diventa spazio insapore e inutile, doloroso e inconsistente, vuoto e morto come la terra di Una questione privata di Paolo Taviani – tratto dal romanzo di Beppe Fenoglio -, dove un mondo contadino ancora intatto assiste incredulo e straziato al sangue versato da giovani italiani, fascisti e partigiani, in guerra tra loro.C’è una sequenza, nel continuo contrasto tra amore e guerra proposto dal film, in cui un’intera famiglia contadina giace a terra trucidata, e una bimba, l’unica sopravvissuta alla carneficina, si alza dall’ammasso di corpi per andare a bere dell’acqua. Poi torna sul grembo senza vita di sua madre, per riaddormentarsi come se quell’incubo appartenesse a una notte di sonno infelice, come se bisognasse solo attendere la fine di una nottataccia buia e paurosa, come se in quella terra massacrata fosse ancora possibile vivere serenamente le fondamentali relazioni umane.
Anche nelle terre di Francia e di Marocco in cui è ambientato il bel film francese Prendre le large di Gaël Morel – con una straordinaria Sabrine Bonnaire – c’è un bisogno enorme di relazioni umane, e la loro assenza porta la protagonista Edith ad abbandonare la sua terra d’origine, nonostante il possesso di un casolare dentro un verde riposante e morbido, per avventurarsi pericolosamente nella Tangeri più popolare. Perso il lavoro, Edith ha di fronte due scelte: la liquidazione o il trasferimento in Marocco, dove le condizioni di lavoro e di vita sarebbero a dir poco complicate. Una follia, secondo tutti, ma nessuno – i sindacati in testa – comprende che a spostare Edith dal suo mondo è una profonda solitudine. Col figlio non ha quasi più rapporti, e la pace della natura in cui vive, interrotta solo dai fischi del vento notturno, la sta spegnendo lentamente. La politica non può aiutarla, e così eccola sopra un traghetto a tagliare il Mediterraneo e poi a impattare contro una cultura sempre più intrisa di fondamentalismo, che non accetta i suoi capelli rossi al vento e conta molte donne analfabete, costringendole a lavorare in un inferno quotidiano di ingiustizia.
Edith non scappa, osserva, deraglia e cade, ma sa che non può tornare indietro, perché ha memoria del passato privo di relazioni umane da cui è fuggita; e così, tornata in patria dopo un malore, vende la sua casa e abbandona definitivamente la sua terra per dare una mano a una madre e a un figlio marocchini con i quali era entrata in una relazione autentica durante la sua durissima esperienza.
Edith vuole aiutarli ad allargare la loro piccola attività di ristorazione, vuole riprendere i momenti di profonda condivisione che sono stati per lei ossigeno durante il soggiorno, salvezza momentanea e futuribile, possibilità di ricominciare a vivere oltre i confini geografici e politici, oltre quella terra che da sola non basta all’essere umano, come racconta un altro film della Festa: il western Hostiles di Scott Cooper, dove alla fine dell’Ottocento un ufficiale yankee e un vecchio capo Cheyenne si ritrovano forzatamente a contatto quando al capitano viene ordinato di portare l’anziano sconfitto a morire nella sua terra ancora selvaggia e infinita, ma agghiacciante teatro di una cacciata di uomini da parte di altri uomini, col risultato – racconta il film di Cooper – che “vincitori” e “sconfitti” si sono impietriti, spenti nei lutti subiti e nelle atrocità commesse.Quella terra riascolta barlumi di comunione e fiochi aliti di vita solo quando gli invasori e i nativi si ritrovano uno accanto all’altro e iniziano a conoscersi, a sentirsi non più nemici ma persone.
È la bellezza di un incontro, di una relazione che manca totalmente, invece, in un altro importante e durissimo film della Festa, un’altra opera su una terra divisa, stavolta dal muro antico e invisibile del razzismo tra bianchi e neri d’America. Siamo a Detroit, nel film omonimo di Catherine Bigelow, che parte dalla rivolta nera nell’estate del 1967 e si sofferma sull’episodio più drammatico di quei giorni dolorosi: in un clima di tensione sociale alle stelle, alla polizia viene segnalata la presenza di un cecchino che spara dalla finestra di un motel; è un terribile equivoco, non è partita nessuna pallottola da quell’edificio, ma la paura dell’altro e l’odio umano non spento dalla politica, la convinzione collettiva di essere non fratelli ma padroni del più fragile, diventa un vento fortissimo che soffia sulla pochezza e la bruttezza di tre poliziotti bianchi, fino a farli diventare mostri assassini di tre ragazzi di colore.
Tutti sono vittime di una guerra civile ancora non cessata, infernale come altre due guerre americane raccontate in questa Festa, concentrate in Last Flag flyng di Richard Linklater, che parla di un viaggio di tre ex soldati dentro l’America del 2003, e di altre invasioni di campo, di altri spazi contesi e stuprati, di altre terre ferite senza portare miglioramenti nella vita di nessuno. I protagonisti sono stati insieme in Vietnam da ragazzi, e adesso uno di loro ha perso il figlio in Iraq; insieme vanno a seppellirlo denudando il loro dolore, confermando che nessuna guerra ha senso, che la loro terra americana ha senso se attraversata insieme, accarezzando ognuno le ferite dell’altro, producendo la bontà della relazione umana.