Una teologia nonviolenta dell’Islam

I teologi devono mettersi in ascolto e imparare dai movimenti di resistenza nonviolenta di chi rischia la propria vita davanti ad un potere prevaricante.  Intervista a Adnane Mokrani
Islam - preghiera per la pace in moschea. Portogallo(AP Photo/Armando Franca)

Adnane Mokrani è un teologo islamico noto in Italia dove insegna presso la Pontificia università Gregoriana. Autore di moti studi e saggi, dopo molti anni vissuti nella Capitale (si legga il suo “Leggere il Corano a Roma”), per tre anni ha seguito un progetto di ricerca con la Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII che a Palermo ha aperto la Biblioteca Giorgio La Pira e il Centro di studi sulla storia e le dottrine dell’islam.

I suoi studi più recenti sono dedicati al pensiero nonviolento nell’Islam. L’università statale del Michigan, negli Usa, ha recentemente pubblicato un suo importante testo dal titolo “Verso una teologia islamica della nonviolenza. In dialogo con René Girard” presentato con un grande convegno presso la Gregoriana nel marzo di questo anno.

È un tema fecondo e quanto mai attuale che permette di fare luce su realtà, persone e storie del tutto sconosciute come ad esempio la vita di Jawdat Said, il pensatore siriano, scomparso recentemente nel gennaio 2022, promotore di una radicale visione della nonviolenza fondata sull’interpretazione del testo coranico e della tradizione islamica.

Da dove nasce il suo interesse per la teologia islamico sulla nonviolenza e quali sono le fonti per lo più sconosciute di questo filone di pensiero?
Mi sento in continuità con grandi pensatori musulmani contemporanei in India, Siria (si pensi, appunto, a Jawdat Said) e altrove che sono stati influenzati dal mahatma Gandhi, ma anche l’ondata della cosiddetta “primavera araba” che almeno all’inizio ha visto in azione pratiche collettive nonviolente così come la cosiddetta “onda verde” in Iran. Sono segnali di una consapevolezza crescente, soprattutto tra i giovani, che non si può resistere alla dittatura usando le armi ma attraverso forme di resistenza sociale e civile. Ovviamente con tutti i rischi collegati perché i nonviolenti sono le prime vittime della violenza sistematica dei regimi oppressivi.

Il mio lavoro consiste nel cercare di esprimere nel pensiero teologico questa sete di pace. Si tratta di cercare una base dottrinale islamica che può dare ragione e sostenere le scelte pacifiche.

 Cosa è l’“onda verde” ?
È quel movimento sorto in Iran per contestare i brogli dei risultati elettorali che hanno portato alla rielezione della presidenza Ahmadinejad dell’Iran nel 2009. Una realtà pacifica che si è scontrata con una reazione molto violenta del potere.

Il nostro immaginario comune in Occidente, invece, è quello di un mondo islamico violento…
Esistono evidentemente gruppi terroristici radicalmente violenti, ma allo stesso tempo c’è nell’Islam questa nuova coscienza che sta prendendo forma, seppure in forma di movimenti spontanei. È una spinta popolare che deve trovare una sua espressione politica per concretizzare questa voglia di cambiamento nella nonviolenza.

A che punto è il suo progetto di ricerca?
Il mio lavoro è basato su tre pilastri. Il primo è quello di cercare nel Corano la chiave ermeneutica per cercare di capire il testo sacro in modo nonviolento a partire da quelle parti problematiche lette come incoraggiamento alla violenza. Il secondo passo del mio studio interessa la narrativa coranica, cioè le storie  dei profeti come base di una teologia spirituale narrativa che offre molti spunti e completa l’approccio interpretativo teorico dei testi. La terza parte del percorso è dedicata alla narrativa storica dell’Islam nella sua fase di conquista degli imperi e l’impiego della violenza da parte degli stati.

Di cosa si tratta in sostanza?
Si tratta di uscire da un racconto che sacralizza il potere per dare spazio ad altre prospettive finora ignorate e non ben conosciute. Occorre saper dare un fondamento teorico, etico e morale alla scelta nonviolenta che si pone al centro della riforma del pensiero religioso non solo come forma di resistenza al potere coloniale e alle dittature ma come stile di vita. È un cammino che permette di precisare l’essenza stessa della religione, la sua missione nella vita delle persone e nello spazio pubblico che deve essere quello di umanizzare la società. Rendere più umana la persona vuol dire aprirla al rapporto con Dio e alla relazione con gli altri. Un soggetto, quindi, libero da ogni attaccamento a posizioni di potere, dall’ego individuale e collettivo che lo rinchiude in logiche tribali.

Dobbiamo infatti chiederci oggi quale persona intendiamo oggi preparare ed educare come credente? La nonviolenza, quindi, è una conversione della stessa teologia chiamata a fare il passaggio da un pensiero che giustifica e teorizza il potere ad una teologia spirituale che cerca di umanizzare e quindi divinizzare l’essere umano.

 Questa prospettiva è solo un tentativo iniziale di riflessione o è già presente nel dibattito teologico islamico contemporaneo?
È un dibattito vivo sollecitato dalle derive terroristiche emerse in particolare in Algeria e poi in tutto il Medio Oriente. Uno scandalo per l’intero mondo musulmano che è chiamato a dire cosa è l’Islam oggi. Ed è qualcosa che rimanda ad una visione interreligiosa per l’influenza che Gandhi, da induista, continua ad esercitare verso il mondo dell’Islam e dello stesso cristianesimo. Senza la testimonianza del Mahatma non avremmo avuto esempi luminosi come Martin Luther King e Abdul Ghaffàr Khàn (leader politico afghano nonviolento). Per sua natura la teologia della nonviolenza è una teologia comparata perché oggi non si può concepire un pensiero teologico basato sul presupposto dell’assenza dell’altro. Se pretendo di appartenere ad una religione universale la mia teologia deve in grado di ascoltare e parlare con tutti.

Quale è il pensatore cristiano che considera più vicino in questa prospettiva di dialogo?
Ho imparato molto da Renè Girard, (antropologo francese morto nel 2015, ndr) tramite i suoi discepoli e scritti, in particolare Wolfgang Palaver della facoltà teologica di Innsbruck.  Il libro che ho scritto è infatti intitolato “In dialogo con Renè Girard”. Il suo pensiero profondo e fecondo ci aiuta a capire come la violenza abbia il potere di incidere e deformare l’intera cultura di un Paese perché costringe la vittima a reagire in modo violento. Il ricorso al terrorismo da parte dei popoli oppressi è una grande tentazione sempre presente quando prevale la disperazione perché all’orizzonte non si vede un segno di speranza.

Cosa comporta questa consapevolezza nell’elaborazione della teologia?
La teologia non è una “Fatwā”, un parere giuridico pratico. La teologia non ha il compito di imporre una linea politica ma quella di offrire una linea di principio a favore della pace invitando a cercare modalità creative per cambiare le cose in maniera nonviolenta, che poi è il modo per mostrare la nudità dei regimi oppressivi e quindi molto più efficace. I teologi devono mettersi in ascolto e imparare dai movimenti di resistenza nonviolenta di chi rischia la propria vita davanti ad un potere prevaricante.

Oggi la guerra è diventata estremamente devastatrice e globale, per cui non si possono più evitare le vittime civili. Infatti, la guerra “chirurgica” è una bugia. Il rischio più grande della violenza è di deformare la nostra psiche e coscienza, trasformandoci all’immagine dell’aggressore. La violenza potrebbe essere un atto di sopravvivenza, una esplosione dopo tanti anni di sofferenza davanti ad una macchina di guerra soffocante ed un silenzio globale complice. La nonviolenza cerca di uscire dalla logica della reazione imposta dall’aggressore, per aprire una strada di speranza e di resistenza pacifica.

Un percorso difficile e pericoloso….
Certo ma è necessario, perché con l’uso della violenza siamo tutti ugualmente sporchi di sangue mentre coloro che esercitano la nonviolenza mostrano una superiorità morale che mette a nudo i regimi oppressivi e le potenze coloniali. Ma occorre dirlo in maniera chiara ed articolata, farla conoscere, altrimenti si perde sotto la spinta repressiva. La nonviolenza ha bisogno di una voce mediatica libera e forte.

 

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