Una Stanza del silenzio all’università di Firenze
Una “Stanza del silenzio” all’interno dell’università. Uno spazio per una sosta durante la corsa quotidiana, spesso affannosa. Un luogo che ci accoglie e in cui ci si può fermare restando in silenzio; per pensare, per riflettere, prendere buone decisioni, per pregare…
L’inaugurazione è avvenuta giovedì 2 maggio, al Polo Universitario fiorentino di Novoli, edificio D 10, con la presenza della rettrice Alessandra Petrucci, dei rappresentanti delle istituzioni cittadine, del rabbino capo, dell’Imam, dell’abate di San Miniato al Monte, della rappresentanza buddista e baha’ì, di studenti e docenti dell’Ateneo.
Un progetto di cui a Firenze si parla da tempo, sostenuto con entusiasmo dal professor Marco Bontempi, ordinario di Sociologia e direttore del Dipartimento di scienze politiche e sociali, che abbiamo intervistato.
Perché questo luogo, quali sono le sue caratteristiche e qual è il senso della presenza oggi dei rappresentanti delle confessioni religiose, in uno spazio privo dei simboli delle fedi?
La Stanza ha un carattere “laico”, non è un luogo di culto; va oltre le diverse appartenenze religiose o culturali. È un luogo per tutti, la cui sola regola è il silenzio, e pone implicitamente in evidenza la dimensione dello spirito come dimensione propriamente umana. Una dimensione che ha diritto di esistere anche all’interno di una struttura di ricerca e di formazione culturale come l’università.
Nella nostra società occidentale la dimensione dello spirito è spesso negata, esclusa o delegittimata, se non addirittura contrastata come fosse espressione di alienazione.
E questo è un grave errore, perché riguarda tutti e fa parte del nutrimento dell’esistenza, sebbene con forme diverse. Oggi la stessa sociologia ha iniziato ad abbandonare la “secolarizzazione” come modo corretto di pensare il cambiamento sociale. All’idea che la religione o comunque la dimensione dello spirito sia in contrasto con la modernità non crede quasi più nessuno. Assistiamo a trasformazioni molto forti all’interno delle religioni alla ricerca dell’attualizzazione delle proprie intuizioni originarie (basti pensare al percorso del cattolicesimo e al Concilio Vaticano II) che le rendono vive, attuali. In più. La circolazione sempre più estesa delle persone che si spostano da un Paese all’altro ci mette di fronte a un fatto. Nel mondo sono molti di più coloro che hanno un riferimento religioso, rispetto a chi non lo ha. Molti arrivano da noi dal Sud del mondo e portano con sé una dimensione di fede molto radicata. L’Europa è il continente in cui l’abbandono della sfera religiosa è stato più forte; ma fuori dell’Europa il mondo è per la maggior parte “religioso”.
Dunque un tale luogo risponde in certo senso anche al bisogno di molti studenti stranieri, in una università che si va sempre di più internazionalizzando.
Certamente. Gli studenti stranieri sono in crescita e soprattutto i più giovani, quelli del triennio. È una scelta dell’università favorire queste presenze che portano una ricchezza culturale. I ragazzi musulmani hanno accolto con molto favore questo progetto, perché durante il giorno, in università, non sanno dove fermarsi per pregare. Da oggi possono avere un luogo dignitoso, senza dover cercare qualche angolino, come un ripostiglio o cose del genere.
Dunque la dimensione dello spirito trova spazio in università, mostrando che oggi ci sono sensibilità maggiori.
Sì. In questo luogo persone religiose e non religiose si ritrovano le une accanto alle altre, in silenzio, di fronte al proprio mistero, al mistero stesso dell’esistenza.
Che cosa vuol dire sostare in silenzio?
Impariamo che il silenzio non è l’assenza di rumori, ma possibilità di aprire il cuore. Nel tempo in cui stiamo lì, non ci sono questioni da ricomporre sul piano delle differenze dottrinali o filosofiche. Questo sostare in silenzio favorisce allo stesso tempo l’approfondimento della propria dimensione, nell’interiorità: si leggerà, penserà, pregherà o mediterà, ciascuno secondo il proprio stile, ma in modo silenzioso. Con la vicinanza fisica a chi è comunque diverso da sé.
Tale contesto favorisce una prossimità anche spirituale.
Il silenzio, fatto insieme, non cancella, ma oltrepassa le dottrine. Le differenze nella preghiera personale sono mantenute, ma c’è una vicinanza fisica, resa possibile dal fatto che si tace. Questo sostare in silenzio favorisce inoltre una pratica più difficile che ci insegnano i monaci: il silenzio della mente, in cui la mente non è attiva, ma è aperto il “cuore”. Un cuore aperto all’ascolto. Una pratica presente nel cristianesimo come in molte altre religioni.
Quindi, a suo parere, non c’è il rischio di una fusione quasi panteistica. Questo spazio può favorire il dialogo che è incontro tra identità diverse?
Certamente. Il valore è che siamo insieme in silenzio di fronte al mistero. Ci facciamo prossimi, in una forma che non è un’azione, ma ci leghiamo. Ci lega la dimensione dello spirito. È una bella esperienza umana che favorisce l’incontro. E quando usciamo di lì ci ritroviamo in certo modo più uniti e potenzialmente più solidali senza sapere come.
Non si sta seduti in silenzio come si fa in tram.
Siamo rivolti verso la radice della vita. Per me cristiano sarà Cristo risorto, come fonte e “volto” dell’amore di Dio, chi ha un altro credo si esprimerà secondo un’altra visione, un’altra comprensione, ma la radice è la stessa. Senza nessuna superiorità, con sincerità di cuore. La verità di ciascuno non viene diluita.
Così, il fare che eventualmente ne emerge diviene espressione dell’essere. Possiamo anche dire che sostare nella Stanza del silenzio è un’esperienza umana che favorisce processi di pace. Non a caso padre Bruno Hussar, più di 50 anni fa, anni fa istituendo la cittadella della pace Neve Shalom/Wahat al-Salam, nei pressi di Gerusalemme, volle costruire un luogo simile, silenzioso, in cui gli abitanti delle tre fedi abramitiche e gli altri, potessero liberamente sostare insieme. Tu parlavi di radice, ed è la radice che fornisce alimento per vivere.
Esattamente. E qui si capisce meglio il Vangelo quando dice “fatevi prossimi”. Senza dubbio dobbiamo essere vicini alla persona in difficoltà come fa il samaritano. Ma l’arroganza del fare tende a scomparire, prende posto la dimensione dell’ascolto, si sospende l’azione, per recuperarla in modo diverso, più chiaro, più incisivo. Espressione, come dici, dell’essere.