Una spiritualità di comunione

Estratto di un discorso pronunciato a Milano, il 9 marzo 1995, in occasione del conferimento del “Premio UELCI (Unione Editori e Librai Cattolici Italiani) Autore dell'Anno. Introduzione di Fabio Ciardi, o.m.i.
Chiara Lubich e Igino Giordani

Introduzione

Fabio Ciardi, o.m.i.

 

È noto come Giovanni Paolo II abbia individuato nella “spiritualità della comunione” il fattore caratterizzante il nuovo millennio: “Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia… Prima di programmare iniziative concrete occorre promuovere una spiritualità della comunione” (NMI, 43).

 

Il Papa pensava immediatamente alla necessità di creare rapporti d’unità nella Chiesa, a tutti i livelli “tra Vescovi, presbiteri e diaconi, tra Pastori e intero popolo di Dio, tra clero e religiosi, tra associazioni e movimenti ecclesiali” (Ibid., 45).

 

Ma potremmo pensare anche ai riflessi che una tale spiritualità è chiamata a portare in campo sociale e, perché no, politico, come afferma Benedetto XVI: “È facile comprendere quanto grande sia questo dono, se solo pensiamo alle frammentazioni e ai conflitti che affliggono le relazioni fra i singoli, i gruppi e i popoli interi… La ‘comunione’ è… il rimedio donatoci dal Signore contro la solitudine che oggi minaccia tutti… è la luce che fa risplendere la Chiesa come segno innalzato fra i popoli” (Catechesi per l’udienza del 29 marzo 2006).

 

La proposta di Giovanni Paolo II nasce dalla lettura dei segni dei tempi e dal rapporto a lungo coltivato con Chiara Lubich e il suo carisma. Nella nuova spiritualità comunitaria, propria del Movimento dei Focolari, egli vi aveva scorto una risposta dello Spirito.

 

In due lettere scritte a “Cardinali e Vescovi amici del Movimento dei Focolari”, lui stesso evidenzia la straordinaria somiglianza fra la “spiritualità di comunione”, proposta a tutta la Chiesa, e la “spiritualità dell’unità” di Chiara, sino a concludere che sono la stessa cosa, visto che “‘la spiritualità dell’unità’ e ‘della comunione’” caratterizzano “il vostro Movimento…” (in L’Osservatore Romano, 15 febbraio 2001).

 

In un’altra lettera, sempre indirizzata ai Vescovi, il Papa mostra come la “spiritualità di comunione” può essere arricchita dai cardini della spiritualità dell’unità: “La ‘spiritualità di comunione’ si articola in diversi elementi, che affondano le proprie radici nel Vangelo, e risultano arricchiti dal contributo che all’intera Comunità cristiana offre il Movimento dei Focolari, impegnato a testimoniare la ‘spiritualità dell’unità’. Tra gli altri, mi piace qui ricordare l’unità come ‘testamento’ lasciato da Gesù ai suoi discepoli (cf. Gv 17), il mistero di Cristo crocifisso e abbandonato come ‘via’ per raggiungerla, la celebrazione dell’Eucaristia come vincolo di comunione, l’azione dello Spirito Santo che anima la vita del Corpo mistico di Cristo e ne unifica le membra, la presenza della Vergine Maria, Madre dell’unità, che tutti ci conduce a Cristo” (in L’Osservatore Romano”, 14 febbraio 2003).

 

Nella conversazione che qui riportiamo, Chiara spiega le caratteristiche e la novità di questa sua spiritualità. Dopo aver accennato alle odierne esigenze di una spiritualità più comunitaria, citando Rahner, De Fiores, lo stesso Paolo VI (e si potrebbe certamente spaziare su tutto il Novecento), ripercorre velocemente la propria storia e quella del Movimento, per cogliervi i prodromi di una spiritualità di comunione.

 

Quindi, offre alcuni spunti sulla peculiarità non tanto della sua spiritualità, molto vasta e ricca, quanto piuttosto della sua dimensione specificamente comunitaria. In altre conversazioni e scritti andrà ancora più in profondità e svilupperà sistematicamente sia la sua spiritualità sia la dimensione comunitaria. Questi primi accenni fanno comunque già intuire la novità e la bellezza del suo carisma.

 

Nello svolgere il tema, Chiara usa un particolare genere letterario, quello della “antitesi”. In questo caso si confronta con quelle che lei chiama “spiritualità individuali”, termine che può non essere condiviso, perché riduttivo. È un metodo didattico per mettere in risalto i tratti caratteristici della sua spiritualità. Il valore della sua conversazione non sta tanto nel come ella descrive le precedenti spiritualità, ma piuttosto in quello che vuol dire della sua spiritualità, che si caratterizza come “spiritualità dell’unità”, più ancora che comunitaria o “collettiva”. La contrapposizione con le altre spiritualità è quindi soltanto funzionale alla comprensione della sua.

 

Effettivamente in essa l’unità e le sue conseguenze nel vivere cristiano sono tematizzate in maniera esplicita. Attorno all’unità si articola tutto il vissuto spirituale. La stessa qualificazione di “collettiva”, da assonanze che richiamano letture marxiste del sociale e che quindi potrebbe suonare negativa, è impiegata in maniera quasi provocatoria, per sottolineare il distacco e la novità rispetto a precedenti esperienze.

 

L’affermazione della novità del proprio carisma e della sua spiritualità, non vuole minimamente mettere in ombra gli altri carismi e spiritualità. In altri scritti Chiara testimonia l’incanto, l’ammirazione, il rispetto per la grande e multiforme tradizione spirituale che arricchisce la Chiesa, come dice anche nel testo che stiamo per leggere, “delle perle più preziose e dei brillanti più vari, più rari”: “Se da una parte siamo coscienti che il carisma del nostro Movimento è utile a tutta la Chiesa – scriveva ad esempio leggendo gli scritti di san Giovanni della Croce -, dall’altra siamo pure convinti che tutti i carismi della Chiesa sono utili a noi, figli della Chiesa. E allora dobbiamo imparare da tutti i santi”.

 

Per questo ha saputo mettersi con umiltà alla scuola dei santi. La loro esperienza le appartiene, come tutto ciò che è Chiesa. “È proprio della nostra spiritualità – scrive in proposito – imparare dai santi, farci figli di essi, per partecipare del loro carisma”. Grazie alle molteplici esperienze spirituali della storia, la Chiesa le appare come “un Vangelo dispiegato nel tempo e anche nello spazio”, come un “Cristo dispiegato nei secoli”.

 

Una volta che Chiara è riuscita a far cogliere tutta la novità della sua esperienza spirituale (non potrebbe non essere nuova, se frutto di un carisma: lo Spirito crea sempre cose nuove), Chiara non esita a riconoscerla come una delle tante e a ricollocare la propria spiritualità accanto alle altre, come scriveva nel 1987 in una conversazione indirizzata ai Vescovi amici del Movimento: “… avverto nell’anima un pensiero che ritorna: ‘Lascia a chi ti segue solo il Vangelo… È evidente che nel tempo in cui tu vivi e gli altri vivono sono stati utili concetti, frasi, slogan che rendevano il Vangelo aderente all’epoca moderna, ma questi pensieri, questi detti, queste quasi ‘parole di vita’, passeranno”.

 

E dopo alcune esemplificazioni continua: “La stessa spiritualità dell’unità, che oggi è una medicina del tempo, raggiunto lo scopo sarà messa a fianco di tutte le altre nate dai vari carismi donati da Dio alla Chiesa lungo i secoli. Ciò che resta e resterà sempre è il Vangelo, che non subisce l’usura del tempo: ‘Passeranno i cieli e la terra, ma le mie parole non passeranno’ (Mt 24, 35)… Se così farà, l’Opera di Maria rimarrà sulla terra veramente come altra Maria: tutto Vangelo, nient’altro che Vangelo, e, perché Vangelo, non morirà”.

 

Una spiritualità di comunione

 

Una delle caratteristiche più originali di questa spiritualità dell’unità risiede nella sua dimensione comunitaria.

Si sa come in questi duemila anni dalla venuta di Gesù, la Chiesa abbia visto fiorire nel suo seno, l’una dopo l’altra, e a volte contemporaneamente, le più belle, le più ricche spiritualità, sicché la Sposa di Cristo si è vista adorna delle perle più preziose, dei brillanti più rari che hanno formato e formeranno ancora tanti santi.

 

In tutto questo splendore una nota è sempre stata costante: è soprattutto la persona singola che va a Dio.

È questa una conseguenza ancora di quel lontano periodo della storia in cui i cristiani, scemato il primitivo fervore che aveva visto stringersi la comunità di Gerusalemme in un cuore solo e un’anima sola, e, passate le persecuzioni, pensarono di salvare la propria fede ritirandosi nel deserto per attuare soprattutto il primo comandamento, amare Dio. È l’epoca dell’anacoresi.

 

Se questo salvò tanti principi cristiani e fece dei santi, non si sottolineò tanto il valore del fratello nella vita spirituale, e, alle volte, si vide nell’uomo anche un ostacolo per andare a Dio.

 

Apa Arsenio diceva: “Fuggi gli uomini, e sarai salvo”2.

 

E ancora molti secoli dopo, nel famoso libro della Imitazione di Cristo – bellissimo –, è stato scritto: “Disse un saggio: Ogni volta che andai fra gli uomini, me ne tornai meno uomo”3.

 

Spiritualità “individuali” dunque, anche se il mistero del Corpo mistico di Cristo fa sì che non siano mai esclusivamente tali, in quanto ciò che avviene in una persona ha sempre riflesso sulle altre. E anche perché questi cristiani offrivano e offrono a Dio preghiere e penitenze in favore dei fratelli.

 

Ma oggi i tempi sono cambiati.

 

In quest’epoca lo Spirito Santo chiama con forza gli uomini a camminare accanto ad altri uomini, anzi ad essere, con tutti quanti lo vogliono, un cuor solo e un’anima sola.

 

E lo Spirito Santo ha spinto il nostro Movimento, fin dai suoi inizi, a fare questa solenne sterzata verso gli uomini. Secondo la spiritualità dell’unità si va a Dio proprio passando per il fratello.

 

“Io-il fratello-Dio”, si dice. Si va a Dio insieme con l’uomo, insieme con i fratelli, anzi si va a Dio attraverso l’uomo.

Da studi di nostri esperti – almeno in una prima visione generale – risulta che una spiritualità come questa dell’unità, con queste particolari accentuazioni sulla dimensione comunitaria della vita cristiana, appare per la prima volta nella Chiesa.

Ci sono state, sì, nel passato esperienze che si avvicinano ad essa, soprattutto sorte da chi metteva l’amore a base della vita spirituale.

 

È da ricordare, ad esempio, san Basilio, per il quale il primo comandamento riguardante l’amore di Dio e il secondo riguardante l’amore del prossimo erano posti a base della vita della sua spiritualità.

 

E soprattutto sant’Agostino, per il quale l’amore reciproco e l’unità avevano il supremo valore.

 

Ma padre Jesús Castellano, ad esempio, noto esperto di teologia spirituale, dice che “nella storia della spiritualità cristiana si afferma: ‘Cristo è in me, vive in me’ ed è la prospettiva della spiritualità individuale, della vita in Cristo; o si afferma: ‘Cristo è presente nei fratelli’ e si sviluppa la prospettiva della carità, delle opere di carità, ma manca in genere scoprire che se Cristo è in me e nell’altro, allora Cristo in me ama Cristo che è in te e viceversa… e vi è il donare e il ricevere”.

 

Esiste – afferma il Castellano – anche una spiritualità comunitaria, ecclesiale, a Corpo mistico…. Si parla in genere di questa spiritualità come di una corrente del nostro secolo, secolo della riscoperta della Chiesa.

Ma quel ‘di più’ che il Movimento ci dà con la spiritualità collettiva è la visione e la prassi di una comunione, di una vita ecclesiale, ‘a Corpo mistico’, nella quale vi è e la reciprocità del dono personale e la dimensione del diventare ‘uno’.

Anche quando esistono intuizioni o affermazioni negli autori di oggi su questa dimensione della teologia e della spiritualità, manca in loro il modo concreto di proporre questo come stile di vita, e di incarnarlo in una esperienza; dalle cose più semplici alle dimensioni più impegnative”4.

 

Nello stesso tempo una spiritualità comunitaria è stata prevista per i nostri tempi da teologi contemporanei ed è richiamata dal Vaticano II.

 

Karl Rahner, parlando della spiritualità della Chiesa del futuro, la pensa nella “comunione fraterna in cui sia possibile fare la stessa basilare esperienza dello Spirito”. Egli afferma: “Noi anziani siamo stati spiritualmente degli individualisti, data la nostra provenienza e la nostra formazione…. Se c’è un’esperienza dello Spirito fatta in comune, comunemente ritenuta tale,… essa è chiaramente l’esperienza della prima Pentecoste nella Chiesa, un evento – si deve presumere – che non consistette certo nel casuale raduno di una somma di mistici individualistici, ma nell’esperienza dello Spirito fatta dalla comunità…. Io penso – continua Rahner – che in una spiritualità del futuro l’elemento della comunione spirituale fraterna, di una spiritualità vissuta insieme, possa giocare un ruolo più determinante, e che lentamente ma decisamente si debba proseguire lungo questa strada”5.

 

Il cardinale Montini nel 1957 aveva detto che in questi tempi ormai l’episodio deve farsi costume e che il santo straordinario, pur essendo venerato, cede il posto in certo qual modo alla santità di popolo, al popolo di Dio che si santifica6.

 

È un’era, dunque, la nostra in cui la realtà della comunione viene in piena luce, in cui si cerca, oltre il Regno di Dio nelle singole persone, anche il Regno di Dio in mezzo alle persone.

 

Le spiritualità più propriamente individuali inoltre manifestano in genere delle precise esigenze in coloro che vi sono più impegnati: la solitudine e la fuga dalle creature per raggiungere la mistica unione con la Trinità dentro di sé.

 

Per custodire la solitudine si esige il silenzio.

 

Per tenersi separati dagli uomini si usano il velo e la clausura, oltre ad un particolare abito.

 

Per imitare la passione di Cristo si fanno le più svariate penitenze, a volte durissime, digiuni, veglie.

 

Nella via dell’unità si conosce pure la solitudine e il silenzio, per attuare, ad esempio, l’invito di Gesù a chiudersi nella propria stanza a pregare, e si fuggono gli altri se portano al peccato, ma in genere si accolgono i fratelli, si ama Cristo nel fratello, in ogni fratello, Cristo che può essere vivo in lui o può rinascere anche per l’aiuto che noi gli offriamo. Ci si vuole unire con i fratelli nel nome di Gesù, onde aver garantita la sua presenza in mezzo a noi (cf. Mt 18, 20).

 

Nelle spiritualità individuali si è quindi come in un magnifico giardino (la Chiesa) e si osserva e si ammira soprattutto un fiore: la presenza di Dio dentro di sé. In una spiritualità collettiva si amano e si ammirano tutti i fiori del giardino, ogni presenza di Cristo nelle persone. E la si ama come la propria.

 

E giacché anche la via comunitaria non è e non può esser solamente tale, ma anche pienamente personale, è esperienza generale che quando ci si trova soli, dopo aver amato i fratelli, si avverte nell’anima l’unione con Dio. Basta infatti, ad esempio, prendere un libro in mano per fare meditazione che egli, dentro, vuole che si parli.

 

Per cui si può dire che chi va al fratello in modo corretto, amando come il Vangelo insegna, si ritrova più Cristo, più uomo.

 

E, poiché si cerca di essere uniti con i fratelli, si ama in modo speciale, oltre il silenzio, la parola, che è mezzo di comunicazione.

 

Si parla per farsi uno con i fratelli.

 

Si parla, nel Movimento, per comunicarsi le proprie esperienze sulla pratica della Parola di vita7 o sulla propria vita spirituale, consci che il fuoco non comunicato si spegne e che questa comunione d’anima è di grande valore spirituale. San Lorenzo Giustiniani diceva: “Nulla infatti al mondo rende più lode a Dio e più lo rivela degno di lode, quanto l’umile e fraterno scambio di doni spirituali…”8.

 

Si parla nelle grandi manifestazioni per tenere acceso in tutti il fuoco dell’amore di Dio.

 

E quando non si parla si scrive: si scrivono lettere, articoli, libri, diari perché il Regno di Dio avanzi nei cuori. Si usano tutti i mezzi moderni di comunicazione. E ci si veste come tutti per non separarci da nessuno.

 

 

Anche nel Movimento si praticano le mortificazioni indispensabili ad ogni vita cristiana, si fanno le penitenze, specie quelle consigliate dalla Chiesa, ma si ha una stima particolare per quelle che offre la vita d’unità con i fratelli.

 

Essa non è facile per “l’uomo vecchio”, come lo chiama san Paolo, sempre pronto a farsi strada dentro di noi.

 

L’unità fraterna poi non si compone una volta per tutte; occorre sempre ricostruirla. E se, quando l’unità esiste, e per essa c’è la presenza di Gesù in mezzo a noi, si sperimenta immensa gioia, quella promessa da Gesù nella sua preghiera per l’unità, quando l’unità vien meno subentrano le ombre e il disorientamento. Si vive in una specie di purgatorio. Ed è questa la penitenza che dobbiamo essere pronti ad affrontare.

 

È qui che deve entrare in azione il nostro amore per Gesù crocifisso e abbandonato, chiave dell’unità; è qui che per amore di lui, risolvendo prima in noi ogni dolore, si fa ogni sforzo per ricomporre l’unità.

 

Così pure si prega ed è particolarmente sentita la preghiera liturgica, come la Santa Messa, perché preghiera della Chiesa.

Ed è caratteristica la preghiera collettiva insegnata da Gesù: “Se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà” (Mt 18, 19).

 

Per chi percorre la via dell’unità, la presenza di Gesù in mezzo ai fratelli è essenziale.

 

Pena il fallimento personale, occorre che essa sia sempre viva. Ed è proprio questa presenza che caratterizza il carisma dell’unità.

 

Come due poli della luce elettrica, pur essendoci la corrente, non fanno luce finché non si uniscono, ma la producono appena uniti, così due persone non possono sperimentare la luce tipica di questo carisma finché non si uniscono in Cristo mediante la carità.

 

In questa via dell’unità tutto ha significato e valore nel lavoro, nello studio, anche nella preghiera e nella tensione alla santità, come nell’irradiazione della vita cristiana, se vi è con i fratelli la presenza di Gesù in mezzo, che è la norma delle norme di questa vita.

 

 

In questa spiritualità si raggiunge la santità se si fa verso Dio una marcia in unità…

 

Santa Teresa d’Avila, dottore della Chiesa, parla di un “castello interiore”: la realtà dell’anima abitata al centro da Sua Maestà, da scoprire e illuminare tutto durante la vita superando le varie prove. E questo è un culmine di santità in una via prevalentemente personale, anche se poi lei trascinava in quest’esperienza tutte le sue figliole.

 

Ma è venuto il momento, almeno ci sembra, di scoprire, illuminare, edificare, oltre il “castello interiore”, anche il “castello esteriore”.

 

Noi vediamo tutto il Movimento come un castello esteriore, dove Cristo è presente e illumina ogni parte di esso, dal centro alla periferia.

 

Ma se noi pensiamo che questa nuova spiritualità che Dio dona oggi alla Chiesa arriva anche a responsabili della società e della Chiesa, comprendiamo subito che questo carisma non fa solo dell’Opera nostra un castello esteriore, ma tende a farlo del corpo sociale ed ecclesiale.

 

Il Santo Padre, parlando recentemente ad una settantina di Vescovi, amici del Movimento, ha detto: “Il Signore Gesù… non ha chiamato i discepoli ad una sequela individuale, ma inscindibilmente personale e comunitaria. E se ciò è vero per tutti i battezzati – continua il Papa – vale in modo particolare… per gli Apostoli e per i loro successori, i Vescovi”9.

 

Così questa spiritualità, come tutti i carismi, è fatta per tutto il popolo di Dio la cui vocazione è di essere sempre più uno e più santo.

 

 

NOTE

 

1 Città Nuova 39 (1995) 7.33-37.

 

2 Vita e detti dei Padri del deserto, L. Mortali (ed.), Città Nuova, Roma 1999, p. 97.

 

3 Imitazione di Cristo, I, XX, 1-6.

 

4 J. Castellano, Lettera a Chiara a proposito della spiritualità collettiva (dell’unità) dell’Opera di Maria, 21.06.1992.

 

5 K. Rahner, Elementi di spiritualità nella Chiesa del futuro, in Problemi e prospettive di spiritualità, a cura di T. Goffi – B. Secondin, Queriniana, Brescia 1983, pp. 440-441.

 

6 Cf. G.B. Montini, Discorsi sulla Madonna e sui Santi (1955-1962), Milano 1965, pp. 499-500.

 

7 Una frase del Vangelo (o della Scrittura) che i membri del Movimento si impegnano a vivere più particolarmente ogni mese. Cf. Fil 2, 16: “… dovete splendere come astri nel mondo, tenendo alta la parola di vita”.

 

8 L. Giustiniani, Disciplina e perfezione della vita monastica, Roma 1967, p. 4.

 

9 Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XVIII, LEV, Roma 1997, p. 382.

 

 

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