Una speranza per i giovani rifugiati
«Mio fratello è poliziotto. Un giorno si era fatto male alla gamba e io sono andato con lui all’ospedale. Lì, degli uomini di al-Shabab mi hanno detto che non potevo stare con lui, che non potevo aiutarlo. Mia mamma mi ha chiamato poi e mi ha detto di non tornare più a casa perché era pericoloso». Queste le poche parole di Ahmed, 23 anni, quando racconta della sua fuga dalla Somalia, dove ha lasciato famiglia e moglie. Ahmed è uno degli oltre 100 ragazzi che in questo anno hanno partecipato al progetto “Giovani rifugiati: lavorare per l’autonomia”, realizzato dalla Federazione Scs/Cnos – Salesiani per il sociale, in collaborazione con l’Opera salesiana del Sacro Cuore, l’Associazione Cnos-Fap regione Lazio e le Missionarie di Cristo Risorto.
Come ricorda don Valerio Baresi, parroco della Chiesa del Sacro Cuore di Roma, durante la tavola rotonda che ha avuto luogo sabato 17 marzo presso l’Istituto Sacro Cuore, l’aver scelto di lavorare per e con questi giovani è una maniera di rispondere all’intuizione fondamentale di don Bosco e al suo avere a cuore i giovani che si trovano nelle condizioni più sfavorevoli. «Abbiamo scelto i giovani rifugiati perché sono i più poveri e smarriti, sradicati dalla loro terra d’origine – commenta don Valerio –. Il nostro vuole essere un grido per far riconoscere il loro diritto all’accoglienza, all’educazione, al lavoro ma, soprattutto, alla dignità: questa è un’emergenza umana, educativa e pastorale».
Il rifugiato, come ricorda Savino Pezzotta, presidente del Consiglio italiano per i rifugiati (Cir) è una persona «normalmente in pericolo di vita, costretta a fuggire perché minacciata per la sua nazionalità, religione, idea politica o altro, per cui è una persona che ha bisogno di protezione». Questa protezione non sempre viene assicurata e, ancor meno, vengono portate avanti azioni che contribuiscano al recupero della dignità e dell’autonomia di queste persone.
Il progetto “Giovani rifugiati: lavorare per l’autonomia” riconosce proprio questo elemento come fondamentale: entrare in una relazione di amicizia con questi ragazzi e sostenerli nella loro ricerca di formazione e di lavoro. «In questi anni abbiamo conosciuto tanti ragazzi rifugiati con le nostre attività nella città di Roma a vantaggio dei più poveri – racconta Mariana Szájbély, una missionaria coinvolta nel progetto –. Con il passare del tempo questi ragazzi sono diventati degli amici e abbiamo sentito la necessità di fare qualcosa per aiutarli a inserirsi nel tessuto sociale italiano». E così, è nato il progetto che si è articolato quest’anno in quattro fasi: una mappatura iniziale delle offerte formative e lavorative nella città di Roma; l’orientamento, creando percorsi specifici per acquisire o riqualificare le conoscenze dei ragazzi; l’accompagnamento di 18 ragazzi verso l’esperienza professionale, cercando aziende in cui far vivere l’esperienza del tirocinio e l’effettiva realizzazione di uno stage.
I numeri in questi casi non sono il dato fondamentale che aiuta a capire l’importanza e il progresso di un progetto, ma sono stati 104 i ragazzi a cui è stato fornito un servizio di orientamento, mentre in 149 hanno seguito i corsi di italiano offerti dai volontari del progetto e in 17 hanno portato a termine il tirocinio lavorativo. Oggi 14 giovani rifugiati che hanno partecipato al progetto hanno un contratto e possono lavorare e, come dice Ahmed, «quando ti danno il lavoro è meglio dei soldi».