Una solidarietà pagata col sangue
Leggendo queste righe commoventi, ripenso ad un’intervista che mi concesse mons. Henri Teissier ad Algeri, nel 2005. Ad una mia domanda – qual è stato il momento più difficile del suo ministero in Algeria? –, mi rispose così: «Il momento più difficile è stato quello in cui ci siamo accorti che il fenomeno di rigetto del nostro piccolo gruppo progrediva inesorabilmente, un periodo non esattamente coincidente con quello degli attentati, perché a quel punto stavamo ormai già resistendo assieme a tutta la società algerina, essa stessa minacciata nella sua stessa sopravvivenza. Era un periodo piuttosto corrispondente agli anni precedenti, tra il 1985 e il 1992, in cui si riscontrava una chiusura di larghi settori della società, con la nascita di gruppi decisi a rifiutare l’accettazione dell’altro. Per esempio, nel 1991, quando il Fis (Fronte islamico di salvezza) stava per prendere il potere, alcune delle nostre religiose venivano apostrofate per strada: “Quando avremo il potere, non ci sarà più posto per voi tra di noi”. Non era necessariamente il pensiero dei responsabili di tali movimenti islamisti estremi, ma erano fatti che esprimevano la crescita di un pensiero che pretendeva di ritrovare la propria identità islamica nel chiudere la porta in faccia agli altri».
«Tutto ciò si è poi concretizzato nelle uccisioni dei cattolici avvenute tra il 1994 e il 1996; ma assai rapidamente queste uccisioni hanno suscitato attorno a noi delle forti simpatie, delle manifestazioni di vicinanza assolutamente notevoli. Abbiamo attraversato la crisi – 19 omicidi in appena due anni – con una grande sofferenza; ma più questa crisi cresceva, più si avvertiva come molti algerini musulmani si avvicinavano a noi proprio perché avevamo manifestato questa solidarietà col popolo, pagando con il nostro sangue. Questa gente voleva dirci che non voleva costruire un Islam del rifiuto dell’altro».
«Simbolicamente il periodo che ha preceduto questo efferato attentato ha portato poi ad una grande emozione, suscitata dall’uccisione dei sette monaci di Tibhirine e della morte di mons. Claverie. Ai funerali degli uni e dell’altro il numero dei musulmani presenti era addirittura superiore a quello dei cristiani. E per l’ordinazione episcopale del successore del vescovo di Orano abbiamo dovuto organizzare due celebrazioni, una alle 9 del mattina, quella eucaristica riservata ai cristiani, e un’altra alle 11, per i nostri amici musulmani, che volevano manifestare la condanna dell’assassinio di mons. Claverie e la gioia di vedere che la Chiesa aveva scelto alla fine un successore, come segno del voler mantenere una comunità cristiana nella città di Orano. È per questo che posso dire come il periodo più difficile sia stato quello immediatamente precedente alle violenze. Allora andavo spesso a Tibhirine, e raccomandavo ai monaci di non guardare solamente a quello che funzionava nei rapporti coi musulmani, ma anche alle chiusure che venivano proposte e imposte progressivamente a tutto il popolo. A partire dal momento in cui l’orrore è venuto a galla, non era più il tempo di ammonire del pericolo incombente…».