Una sartoria sociale

Al Revés significa al rovescio, “a riversa” in siciliano.Lo “stare insieme” è l'anima di questa cooperativa in Sicilia dove si mescolano storie,  culture, competenze diverse per avviare un processo di cambiamento in chi ha vissuto ai margini esistenziali e sociali

Il rovescio è quel lato che non è visibile, quello dove in un tappeto per esempio si vedono i nodi intrecciati, mescolati e apparentemente disordinati, la testimonianza del lavoro necessario affinché si possa godere della sua bellezza (il diritto).

Al Revés è una sartoria che esiste a Palermo da 4 anni voluta da un’assistente sociale che lavora nell’ambito della giustizia minorile, ispirata da un viaggio in Africa dove incontra “piccoli sarti sparsi nel bel mezzo del nulla” che realizzano manufatti con tessuti riciclati.

Un desiderio quello di R. di realizzare una impresa sociale e di comunione, un modello di rapporto tra necessità, economia ed etica.

Un’impresa difficile al sud “dove non c’è mercato, non ci sono investitori né imprenditori, manca la mentalità auto-imprenditoriale e le convenzioni con gli enti sono pressoché assenti.”

Esiste un protocollo di intesa con il Tribunale Ordinario di Palermo per le misure di messa alla prova e di pubblica utilità e l’adesione al Progetto Sigillo (agenzia nazionale di coordinamento dell’imprenditorialità delle donne detenute, e nuovo modello di economia sostenibile ndr).

Quel che c’è, invece, e si sente palpabilmente tra gli scaffali colmi di tessuti riciclati è il credere che la comunità possa essere terapeutica.

Lo “stare insieme” è l’anima di questa cooperativa. Qui si mescolano storie,  culture, competenze diverse, con un unico scopo, creare e avviare un processo di cambiamento in chi ha vissuto ai margini esistenziali e sociali. Ex detenuti, immigrati, emarginati, ex tossicodipendenti, disabili.

Non immaginatevi però di entrare in un luogo dove vedrete i “più fortunati” che aiutano i “meno fortunati”, questo laboratorio è un via vai di giovani, meno giovani, stranieri e non , stilisti, sarti, assistenti sociali, volenterosi apprendisti, addetti alle pulizie e magazzinieri, tutti lavorano insieme, divertendosi creando e aiutandosi reciprocamente.

P. sta scontando i suoi due ultimi anni di pena . E’ qui da meno di un mese. Tre giorni a settimana lavora alla sartoria, la notte ritorna a dormire in cella. In due settimane P. ha rimesso a posto tutti i materiali realizzando un vero e proprio magazzino con tanto di etichette coi nomi dei prodotti, in questo modo ha reso molto più fluido il lavoro di ognuno. Ma P. è un uomo che “non sa stare con le mani in mano”, ha realizzato gli occhielli per una partita di grembiuli di un rinomato ristorante palermitano, ha rimesso a posto i pali del gazebo utilizzato dalla sartoria per le esposizioni,e poi spazza, spolvera, riordina, è inarrestabile, e sempre col sorriso sulle labbra.

P. anni fa “ha perso tutto”, lavorava in mare, aveva una barca e un furgone e ogni notte si immergeva con le bombole per la pesca.

Rimasto senza strumenti di lavoro “si è sentito perso”, sposato con 4 figlie di cui una appena nata “era disperato e si è lasciato coinvolgere in una rapina in banca” che gli è costata anni lontano dalla sua famiglia e dalla sua libertà. Mentre era in carcere ha lavorato sodo facendo molto volontariato e appena fuori è entrato nella sartoria.

P. parla delle sue figlie e di sua moglie come la cosa più importante della sua vita, racconta di quanto prima non ne capisse a fondo l’importanza, racconta con gli occhi lucidi dei disegnini a matita che lui inviava alle bimbe mentre era in prigione, e di come le piccole glieli rinviassero dopo averli colorati. Racconta di come la moglie sia stata licenziata dalla sua datrice di lavoro dopo che ha saputo che il marito era in carcere, e di come lui invece alla sartoria sia stato accolto e a sua volta accolga chiunque, senza porsi il problema della provenienza, del colore o del background.

Mentre P. mi racconta la sua storia, L. lavora alla macchina da cucire e ascolta in silenzio, non può fare altrimenti, la sartoria si sviluppa in un unico grande locale.

Non conosceva la storia di P. sinora perché “qui nessuno fa domande ma tutti sono disponibili ad ascoltare chi decide di aprirsi.” L. è la capo sarta, ha lavorato sin da giovanissima nel laboratorio di una griffe rinomata dove realizzavano abiti di Haute Couture per una clientela selezionata. Due anni fa L. entra nella cooperativa e sceglie di rimanere, malgrado le richieste del suo ex datore di lavoro di ripensarci.

“Là ognuno si faceva il proprio lavoro, buongiorno buonasera e nient’altro…qui è diverso, lavoriamo tutti a stretto contatto, ognuno sostiene l’altro, e ho incontrato tanti “figli” che si sono raccontati, si sono fidati e ai quali mi sono legata”, lo dice sottovoce, con pudore, come a voler proteggere i suoi colleghi e le loro difficili storie. L. insegna ciò che sa agli apprendisti, e lavora accanto a loro ogni giorno, riconosce chi ha talento e capacità, e i suoi occhi si illuminano quando parla di quanto riescano a fare con così pochi strumenti persone che non avevamo mai fatto questo lavoro.

La Sartoria Sociale è una bella e autentica metafora, riciclare vuol dire “dare un’altra possibilità di vita”, il loro motto è Rethink your life, Rethink your design e da questo nessuno è escluso.

 

 

 

 

 

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