Una romantica follia

L’eroina tratta dal romanzo di Walter Scott, rimeditata da Donizetti, all'Opera di Roma fino al 12 aprile
musica classica

Quando si ascolta Lucia di Lammemoor dopo un certo tempo si ha la possibilità di verificare, ancora una volta, di trovarsi di fronte ad un capolavoro e, nella scena della pazzia, ad un vertice espressivo non solo del Belcanto, ma dell’intero romanticismo italiano ed europeo.

L’eroina tratta dal romanzo di Walter Scott è rimeditata da Donizetti nell’aura di una infelicità patologica fin da ragazza, quando crede di vedere fantasmi, si strugge d’amore per un avventuriero infelice, diventa vittima della politica del fratello e poi muore come sacrificio all’amore assoluto, come del resto farà l’amante.

In questa tragedia liricissima e romanticissima, Donizetti evita i languori, le smanie per donarci l’immagine di una giovinezza o meglio di una femminilità gracile e al contempo fortissima, per creare un ambiente torbido, arie di vendetta notturna tra tombe e temporali, malinconie accese e fuori espressi, ed è capace di non far quasi mai scendere la musica dal livello altissimo dell’ispirazione (tranne nel duetto Lucia-Raimondo).

Un lavoro così strutturato in cori d’introduzione, cavatine e cabalette, concertati, ha la straordinaria capacità di superare le forme tradizionali scompaginandole dal di dentro. Accade dalla scena della follia al finale d’opera, una lunghissima “scena” dai momenti psicologicamente variegati – terrore, nostalgia, dolore, morte, paradiso – dove la melodia sia del canto surreale che dell’orchestra curatissima nei dettagli evidenziano la poesia suprema del martirio d’amore.

All’Opera di Roma ciò è presente nell’allestimento curato, prima della morte lo scorso febbraio, da Luca Ronconi. Il quale inventa un palco spoglio, dalle pareti leggere, chiare come un quadro di Mondrian, semoventi, trasportando la storia secentesca nell’Ottocento di un castello-prigione, dove le masse, spesso ingabbiate, sono vestite di nero- metaforicamente – mentre lei, Lucia, veste di bianco. E se la prima parte vede l’opera scorrere sino al duetto della Torre, poi dalla follia alla fine è un solo momento teatrale, diversamente da quanto scritto nel libretto perfetto di Felice Romani, ma assai utile a comprendere come per Ronconi i l dramma di Lucia abbia bisogno per esplodere di un lungo antecedente.

Sulla direzione musicale di un  artista come Roberto Abbado, serio e preciso, va rilevata la grande importanza data agli effetti strumentali della partitura: rare volte si è udita così cristallina l’arpa (scena della fontana), per non parlare degli strumentini e in particole di corni e ottoni (mirabile la tromba nel oro “Ah qual funesto avvenimento”, molto  preverdiano, o meglio, Verdi ha attinto da Donizetti più di quel che si crede, si osservi anche il preludio di Lucia che anticipa quello del Rigoletto…). Il risultato è stato tuttavia che l’orchestra ha talora “coperto” le voci, per cui il rapporto buca-palco è stato a volte imperfetto.

Sul cast primeggiava Jessica Pratt, capace di “puntature” estesissime, di colori teneri, di agilità impervie in una parte difficilissima, da vera belcantista quale è. E qui è da ricordare l’uso straordinario della glassarmonica – un professionista venuto apposta dalla Germania -, strumento cui Donizetti aveva affidato di accompagnare il delirio di Lucia, dalla voce lunare, surreale che sembra arrivare da lontananze cosmiche e assolutamente adatta al clima della pazzia, anziché il solito flauto. Molto impegnato l’intero cast ed il coro, bella la voce del basso Carlo Cigni nel personaggio di Raimondo. Trionfo di pubblico. Si replica fino al 12. Da non perdere.

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