Una riforma “in cammino”
Quella che è stata definita “riforma del Terzo settore” è molto più di una riforma. È il tentativo di “creare” il Terzo settore, dando alle organizzazioni che lo compongono la stessa dignità, rilevanza e attenzione attribuite agli altri due settori: quello delle amministrazioni pubbliche e quello delle imprese a scopo di lucro. Riconoscendo così che le organizzazioni che compongono il Terzo settore sono diventate un riferimento per molti cittadini perché capaci di offrire attività di senso e di dare risposte ai loro bisogni. Quello che fino ad oggi era solo un concetto è diventato così un contenitore giuridico-istituzionale. La legge definisce i confini del settore, stabilendo chi è dentro e chi è fuori non in base alla forma giuridica assunta né dell’attività svolta, ma alle finalità perseguite che devono essere “civiche, solidaristiche e di utilità sociale”. Essa si proponeva anche di semplificare una situazione che, a seguito di interventi normativi fatti in assenza di una quadro di riferimento unitario, risultava molto complessa, con il rischio di far prevalere le differenze invece che le comuni finalità. Questo complesso disegno è però finora riuscito solo parzialmente.
Passi avanti nella chiarezza dei confini sono stati fatti, un insieme di regole comuni sono ora previste e sono meglio definite e rafforzate le forme di sostegno, ma non si può ancora dire che sia stato creato un settore davvero unitario. La resistenza delle organizzazioni più consolidate a perdere qualche vantaggio, o anche solo un parte della loro visibilità ha impedito di semplificare davvero e quindi di unificare forme organizzative, settori di attività, regole e benefici. E ciò ha finito per lasciare una vasta area grigia, tra quelle organizzazioni che erano già riconosciute e quelle che, pur rientrando nella definizione generale di Ente di Terzo settore, non sono nominate nel testo della legge, come le decine di migliaia di associazioni che organizzano attività sportive dilettantistiche.
La legge delega prevede tuttavia che i decreti attuativi possano essere rivisti entro un anno dalla loro approvazione. È una possibilità da non lasciarsi sfuggire.