Una ricerca di verità

Una risposta al lettore
Marco Luppi

Il finale del contributo del nostro lettore può rappresentare un’interessante predisposizione nel porsi di fronte ad un tema delicato ed intricato. Prudenza e rispetto, quindi. Prudenza perché ogni giudizio e ogni ricostruzione storica sono spesso ancora parziali, non suffragati da documenti a sostegno o da verificare alla luce di inchieste giudiziarie ancora in attesa di sentenze definitive. Rispetto: per le vittime e le loro famiglie, per indagati ed accusati ai quali è lecito concedere la presunzione di innocenza fino alla chiusura dei procedimenti.

Ma c’è da auspicare anche un’altra forma di rispetto: quello che definirei della conoscenza, dell’interesse. Troppe volte capita di imbattersi in persone (i giovani sono, come ovvio, l’assoluta maggioranza), che non possiedono alcuna informazione in merito alla stagione terroristica, alle quali nomi, date, ricorrenze non trasmettono particolari emozioni proprio perché i programmi ministeriali raramente arrivano a trattare l’argomento, perché l’opinione pubblica raramente si spinge oltre i giudizi basati su quelle poche “verità” comuni che i mezzi di comunicazione rilanciano. L’invito, pertanto, sarebbe proprio quello di prendersi, almeno ogni tanto, un po’ di tempo per conoscere gli snodi fondamentali della nostra storia repubblicana, dal momento che spesso appare tremendamente vera una frase di George Orwell: “Chi controlla il passato, controlla il presente”.

Ci si domanda: l’esperienza vissuta in Italia ha avuto corrispondenze significative in altri paesi? La RAF (altrimenti conosciuta come Banda Baader-Meinhof) in Germania, Action Directe in Francia, le Cellules Communistes Combattantes in Belgio, solo per citare le esperienze più note, possono essere ricordate come centrali rivoluzionarie e terroristiche di forte sfida nei confronti dello Stato e dell’economia capitalistica europea; le loro ideologie partivano da una matrice marxista, comunista e anti-imperialista, interpretata però in un loro modo, tale da legittimare una visione storica estremamente semplicistica ed una prassi terroristica.

Tuttavia l’Italia rimane un caso piuttosto originale, per l’efficacia e la durata del processo terroristico, ma anche per le caratteristiche dell’esperienza eversiva. Soprattutto in Italia ci fu un fronteggiarsi tra terrorismi sbrigativamente definiti di “destra” o di “sinistra”, laddove l’uso della violenza spesso ha invalidato qualsiasi opportuna attribuzione politica. La strategia della tensione, con l’utilizzo di attentati dinamitardi in luoghi pubblici e stragi indiscriminate che dovevano avere lo scopo di favorire una svolta autoritaria nel Paese; le complesse stagioni dal sapore rivoluzionario del 1968 e del 1977, con il loro carico di tensioni e disillusioni, rinvigorirono una prassi disgregante rispetto al delicato equilibrio tra poteri dello Stato, classi sociali e opinione pubblica.

Ricostruzioni vecchie e nuove, storiche o giudiziarie, sono oramai sufficientemente concordi nel riportare “il caso Italia” all’interno del confronto globale tra Usa e Urss, con le due superpotenze impegnate a favorire il cambiamento o scongiurare il passaggio rivoluzionario, con apparati dello Stato e quadri di partito spesso cooptati negli intrighi politici nazionali ed internazionali. Per questo non deve meravigliare l’opacità di intrecci che si chiariscono con fatica. Se il segreto di Stato vuole probabilmente ancora oggi proteggere funzionari attivi o esposti, è soprattutto la classe politica a non poter ammettere trame segrete e responsabilità scomode.

In quel confronto globale duro, socio-economico e politico-ideologico insieme, generazioni di giovani si spesero alla ricerca della loro “verità”, che ha saldato quasi in un fronte unitario, nel mondo, le battaglie di cartelli geograficamente distanti. Non deve in questo senso meravigliare il riferimento costante delle più importanti sigle terroristiche “rosse” in Italia ai Tupamaros uruguayani o alle componenti armate del mondo palestinese; così come sono accertate le influenze tra le componenti terroristiche europee, all’interno di una rete a maglie larghe nella quale, tuttavia, si è provato a condividere metodi, strategie, finalità.

In nome di quella verità, nel tempo si perdette la corretta valutazione del mondo del lavoro, distanziando ogni momento di più terrorismo rivoluzionario e mondo operaio. Il confronto-scontro nelle piazze, sui giornali, nelle fabbriche, fece perdere molto più delle legittime rivendicazioni economiche a sostegno di quanti avevano contribuito al “miracolo economico” italiano, perché spesso ci si giocò il valore e le potenzialità del dibattito democratico. Nella strategia della tensione che ha compreso il periodo che da Piazza Fontana (12 dicembre 1969) arrivò fino alla strage della stazione di Bologna (2 agosto 1980); nelle azioni rivoluzionarie che andarono dai sequestri, alle gambizzazioni, alle esecuzioni mirate si colpì nel mucchio e si colpì gente comune, ma anche l’efficienza di funzionari, l’onestà di molto giornalismo libero, la schiettezza ed il pragmatismo di lavoratori.

Prudenza e rispetto, si diceva all’inizio. Quella ricerca di verità in fondo continua ancora oggi, all’interno di una società che non appare pacificata, sovente poco educata all’accoglienza dell’altro nella sua persona e nelle sue posizioni, spaventata dal futuro incerto e da un passato raccontato con troppe lacune e in modi troppo diversi. Eppure non bisogna farsi privare della voglia di ricominciare: tanti terroristi dissociati lo hanno fatto con dignità e oggi contribuiscono all’edificazione del bene comune; tante famiglie colpite dalle stagioni stragiste e terroristiche ci mettono davanti esempi meravigliosi di cosa significa vivere senza dimenticare. Non bisogna farsi privare del diritto di sapere, perché la crescita della nostra società passa anche da un percorso di condivisione delle basi culturali, politiche, sociali di un Paese che non ha paura di ricostruire il passato, vivere il presente e guardare al futuro.

 

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