Una regina chiamata Billie

Cento anni fa nasceva Billie Holiday, icona suprema del blues, prototipo dolente e modello imprescindibile per generazioni di signore del jazz. Se la sua arte e la sua classe restano tutt’oggi inimitabili, la sua straziante parabola esistenziale rimane un monito per tutti
Holiday

Eleonora Fagan, in arte Billie Holiday, nacque a Baltimora il 7 aprile del 1915: era il frutto di una notte di passione fra un musicista sedicenne e una ballerina di fila appena tredicenne. Una storia subito in salita, tanto più per una fanciullina nera cresciuta negli anni della segregazione, povera, e abbandonata molto presto dai genitori. Crebbe da una cugina della madre che la trattava con estrema durezza, a dieci anni venne stuprata da un vicino di casa, finì per un anno in un riformatorio, e un paio d’anni dopo finì col prostituirsi in un bordello di Harlem dove nel frattempo s’era trasferita per ritrovare la madre. Un copione non troppo insolito dalle quelle parti. Gli strazianti blues di Bessie Smith e la tromba guizzante di Satchmo Armstrong, ascoltati sul malandato fonografo del salotto, furono la colonna sonora della sua adolescenza. In seguito a una retata finì per alcuni mesi in galera, e quando uscì, nel pieno della Grande Depressione in seguito al crollo di Wall Street, tentò senza successo a fare la ballerina: era un disastro, ma appena la sentirono cantare fu subito chiaro a tutti quale sarebbe stata la sua strada.

Negli anni ruggenti del proibizionismo le colleghe cominciarono a chiamarla “The Lady” per schernirne il comportamento altezzoso e il suo rifiuto di acconsentire alle avance dei clienti. Appena diciottenne venne notata da un produttore, il cognato del celebre clarinettista Benny Goodman, che le procurò il primo contratto discografico. Non ci mise molto a lasciare il segno: l’intensità drammatica e sofferta dei suoi registri, la suprema eleganza delle sue interpretazioni l’imposero subito sul panorama del jazz-blues newyorkese conquistandole la stima delle massime star dell’epoca: Teddy Wilson, Count Basie, Artie Shaw, e il sassofonista Lester Young col quale avviò una profonda amicizia; fu lui a darle l’appellativo di “Lady Day” col quale presero a chiamarla nell’ambiente. Billie fu tra le prime cantanti di colore ad esibirsi in locali riservati ai bianchi: come una sirena messa in mostra in un acquario, con quella sua voce da angelo decaduto e una gardenia bianca infilata fra i capelli corvini. Ma anche un’artista coraggiosa, capace nel ’39 di squarciare il perbenismo dei razzisti con una canzone, Strange Fruit, che resta tuttora uno dei più potenti atti d’accusa contro le violenze dei segregazionisti: «Gli alberi del Sud hanno un frutto strano, sangue sulle foglie e nelle radici. Un corpo nero penzola nella brezza del Sud, un frutto strano che pende dai pioppi…».

Negli anni Quaranta relazioni sempre troppo tormentate e la morte della madre fecero riemergere antiche depressioni e Billie cominciò ad eccedere con superalcolici, marijuana, oppio ed eroina. Una china pericolosa che non sarebbe più riuscita a risalire, ma che non le impedì di regalare al mondo altri capolavori immortali: come la commuovente God Bless the Child da lei stessa composta, Lover Man, Embraceable You, Stormy Weather, Billie’s Blues, Fine and Mellow

Nella decade seguente era ormai una delle istituzioni più à la page della negritudine jazz, tanto amata dagli intellettuali, quanto snobbata dalle masse; si esibì anche in Europa (in Italia un paio d’apparizioni milanesi nel ’58) ma nel frattempo la sua parabola esistenziale continuava ad avvitarsi nelle sue piccole e grandi tragedie: relazioni effimere e burrascose, umiliazioni razziali, problemi finanziari, e un progressivo decadimento fisico che cominciò a ripercuotersi anche sulla qualità delle sue performance. Lady Day morì pochi mesi dopo l’amico Lester, il 17 luglio del 1959, in seguito alle complicazioni di una cirrosi epatica: in un lettino del Metropolitan Hospital di New York, sola e guardata a vista da un agente della narcotici. Il mito cominciò a germogliare fin dall’attimo seguente, trasformandola ben presto nel modello assoluto – e nel cliché perfetto – di cantante nera: lacrime, sangue, passione e languore.

A chi volesse approfondirne le vicende umane ed artistiche consiglio l’autobiografia La signora canta il blues, e quanto ai dischi, per chi non potesse permettersi il monumentale Lady Day  (un box contenente tutte le sue incisioni per la Columbia comprese fra il ’33 e il ’44), lo struggente Lady sings the blues registratofra il ’54 e il ’56: quando ormai la sua voce, un tempo capace d’illuminare i palcoscenici del mondo, s’inabissava tra i tormenti di un’anima incapace di trovar pace da questa parte del Cielo.             

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