Una proposta sugli Eurobond
Il vecchio continente sta attraversando una crisi finanziaria preoccupante. Le idee per uscirne non mancano: che cosa, dunque, le frena?
In questi giorni l’accelerazione della crisi finanziaria europea ci preoccupa e ci lascia col fiato sospeso. Gli analisti ci informano che nelle ultime settimane si è innescato un veloce processo di involuzione del sistema, che oggi è già arrivato alla sua terza fase e che potrebbe portare alla fine dell’euro. Dopo l’attacco a Grecia, Irlanda e Portogallo, la seconda fase ha registrato il pericoloso coinvolgimento di Spagna e Italia. Oggi si assiste al contagio della Francia e persino della Germania: l’asta di titoli di Stato decennali tedeschi la settimana scorsa è andata deserta, e l’agenzia per il debito pubblico è riuscita a collocare soltanto 3,6 miliardi di euro sui 6 che si proponeva di vendere. Gli investitori scappano dall’Europa.
Eppure alcuni strumenti efficaci per affrontare la crisi sono stati proposti: oltre al fondo salva Stati, si parla molto degli Eurobond. Il 23 agosto scorso, dalle pagine de Il Sole 24 ore, l’ex premier Romano Prodi e il prof. Quadrio Curzio ne hanno proposto una variante, gli EuroUnionBond. I due professori ed economisti propongono la costituzione di un fondo finanziario europeo con un capitale conferito dagli Stati dell’Unione, in proporzione alle loro quote in quello della Bce. Il denaro sarebbe attinto alle riserve auree del sistema delle banche centrali, e in parte costituito da azioni di società pubbliche. Le risorse disponibili dovrebbero servire a rilevare una fetta dei debiti pubblici nazionali, facendo così fronte unico contro la speculazione, e a rilanciare gli investimenti in settori cruciali per la crescita europea.
Senza entrare nei tecnicismi di questi strumenti sofisticati, la domanda che si pone è semplice: come mai, nonostante si tratti di strumenti ritenuti efficaci e di relativamente facile attuazione, non ci si decide a porli in essere? Il problema risiede nell’incompiutezza di un progetto europeo che, nella visione dei padri fondatori – Adenauer, De Gasperi e Schuman –, passando attraverso un rafforzamento della cooperazione economica avrebbe dovuto portare ad una vera integrazione politica: gli Stati Uniti d’Europa.
Oggi sembra manchino figure politiche di questo calibro che, attingendo alla visione di un futuro buono per ciascuno e per tutti, sappiano dialogare con la società civile dei propri Paesi, ascoltando e raccogliendo preoccupazioni e dubbi in un dialogo che porti ad identificare obiettivi e vantaggi, e segni il cammino verso quella integrazione già cominciata.
L’Europa non può fallire. Lo chiedono i giovani che già si sentono europei, lo chiedono i più maturi che hanno contribuito a costruirla e a rendere possibile l’euro, anche con alcuni iniziali sacrifici. Lo chiede il resto del mondo, come l’Unione africana che ha sempre guardato all’Europa come ad un modello per la sua costruzione. L’Unione Europea non può fallire perché mancherebbe nella scena internazionale il suo messaggio spesso generoso e all’avanguardia rispetto a posizioni qualche volta miopi ed egoiste di altre regioni dell’emisfero nord in tema di ecologia, di apertura del mercati, di pace.
La settimana scorsa si è svolto il grande convegno delle Caritas diocesane italiane. Mi ha molto colpito quanto detto da papa Benedetto XVI: «La crisi economica globale è un ulteriore segno dei tempi che chiede il coraggio della fraternità». Il coraggio della fraternità, per scelte difficili ed eque.