Una nuova scuola di pensiero
Normalmente, a un insegnamento nozionistico si risponde con un apprendimento di nozioni. Infetti in genere si va a scuola per ricevere informazioni utili. Se da una parte l’informazione serve ad aprire nuovi orizzonti, non è ancora però laverà scuola. L’insegnamento, lo studio, la scuola, non può consistere nel formare la sola ragione, ma deve formare l’uomo. Vorrei fare qualche riflessione su questo problema, attorno ai seguenti binomi: veritàbene, intelligenza- volontà, lavoro-studio, comunità-conoscenza. La verità che è il bene Gli studi non vanno sottovalutati. Quando si affronta un argomento, bisogna conoscere tutti gli sforzi, le conquiste, anche gli sbagli che sono stati fatti attraverso la storia per arrivare a una soluzione. Se si vuol dire qualcosa che abbia valore, bisogna studiare, documentarsi, non lo si può fare in genere con una sorte di semplice intuizione. Quello però che qui si vorrebbe rilevare, è il fatto che non bastano erudizione, conoscenza delle lingue, biblioteche attrezzate dal punto di vista scientifico, ecc. Ci sono infatti persone che con grande fatica si sono formate una vasta cultura riguardo a un dato problema, senza tuttavia essere arrivate a cogliere il senso più profondo del problema stesso, e quindi senza riuscire a dire nulla di valido o di nuovo. L’erudizione conta, ma solo secondariamente. La scienza è utile ma non basta. Perché? Uno dei motivi si trova nella costituzione stessa della realtà. Nel fatto cioè che verità e bene coincidono ontologicamente. Non c’è una verità che non sia al tempo stesso bene. Drammatico è stato, nella storia del pensiero, aver creduto che per capire la verità rivelata nella fede ci vuole la bontà, la virtù, mentre per quella naturale no. In realtà, sia nell’uomo che nella realtà così come sono stati presentati ad esempio da Platone e Aristotele, e nella rivelazione giudaico-cristiana, verità e bontà coincidono: ciò vuol dire che l’uomo può capire veramente in quanto è buono e virtuoso. E questo non è un principio religioso o pietistico, ma una verità profondissima che coinvolge tutto l’essere e la conoscenza umana. L’uomo uno Se poi guardiamo l’uomo in sé stesso, vediamo che è dotato di sensi- intelletto-volontà, ma allo stesso tempo constatiamo che colui che conosce è l’uomo attraverso quelle sue facoltà, l’uomo uno prima ancora d’essere distinto. Questo è un altro motivo per cui non si può più concepire un tipo di cultura che implichi solo il raziocinio e l’intelligenza nel senso moderno della parola. È l’uomo nella sua globalità che deve venire implicato, l’uomo anima-corpo. Per rendere possibile questo è necessario un nuovo stile di studio. Bisogna studiare vivendo, e non studiare soltanto studiando, altrimenti le lezioni allontanano dal vero conoscere. Si dovrebbe studiare solo quel tanto che aiuta lo svolgersi ed il chiarirsi di quello che si vive. Questo è lo studio. È qualcosa che deve implicare l’intelligenza e la volontà simultaneamente, anzi quasi più la volontà che l’intelligenza; dev’essere più l’amore che spinge all’intelligenza che non l’intelligenza che spinge all’amore. E questo non per sminuire il valore dell’intelligenza, bensì per dare ad essa il suo posto e permetterle così di assolvere il massimo della sua funzione e delle sue possibilità. Con uno studio così concepito si dovrebbe diventare uomini, non solo persone istruite. Essere persone colte solo in senso cerebrale significa in realtà essere persone ignoranti. Uno studio insomma che è vita, dovrebbe formare uomini e donne che sanno vivere e che sanno affrontare tutti i problemi del pensare umano come problemi personalmente vissuti, non come problemi di studio. Lavoro come scuola di vita II lavorare, in questa prospettiva degli studi, non è una perdita di tempo, poiché il lavoro è anche un mezzo di conoscenza. Non è soltanto un mezzo per vivere, ma è qualcosa d’inerente al nostro essere uomini, e quindi anche un mezzo per conoscere la realtà, per capire la vita: è strumento di formazione umana reale ed effettiva. Se ho una difficoltà in un lavoro che eseguo, o se devo aumentare la produzione perché altrimenti l’azienda non si regge, questi sono problemi che devo risolvere concretamente, non in maniera astratta o solò spiritualmente. Quando si studia soltanto, uno può anche inventarsi una filosofia e dire che va bene, che è giusta, ma quando si deve far funzionare una macchina, non si può inventare una filosofia: si deve far funzionare quella macchina, secondo leggi intrinseche che sono quelle che sono, ma alle quali ci sì deve adattare. Il lavoro ci da il senso del reale, ci mette a contatto con la materia, con il cosmo. Lì si acquista quell’esperienza vitale che proviene dal doversi adattare alla materia concreta e cercare di adattare essa a noi. Succede spesso che se quello che si dà è un pensiero vitale, difficilmente si è capiti da coloro che studiano soltanto, mentre forse capisce di più una massaia, un operaio che lavora tutto il giorno, i quali non hanno delle categorie astratte e degli schemi attraverso i quali filtrare quello che si vuoi dire, e quindi fraintenderlo. Per questo anche queste persone semplici costituiscono la miglior cassa di risonanza per aiutarci ad uscire dai libri e dai concetti vuoti e trovare un pensare che sia vita, essere, umanità. Una prova di quanto veniamo dicendo la troviamo, ad esempio, quando incontriamo degli operai, dei contadini, dei pescatori, che con là loro esperienza ci esprimono non solo la saggezza del loro contatto faticoso con la vita e con la natura, ma della natura ci sanno esprimere in qualche modo anche la concretezza, l’armonia, la purezza. A contatto con queste persone possiamo imparare molte cose su certi valori dell’esistenza umana che nessun libro potrebbe mai darci. Quindi non dobbiamo – con lo studio – staccarci dal mondo del lavoro, dal mondo della materia, bensì farlo diventare un tutt’uno con noi. Per questo è necessario un lavoro serio, produttivo, concreto. Lì si vede se siamo innestati bene nel reale, se siamo veri. È al contatto con la realtà che l’intelligenza, lo spirito, l’essere dell’uomo si staglia, s’illumina, si chiarifica. E qui si comprende il rischio cui oggi è esposto l’uomo, di fronte al dilagare dei media: il rischio di sostituire al reale-reale un reale-virtuale. Non dico che queste acquisizioni vanno rigettate, ma vanno immesse in un orizzonte globalmente umano, dove una salda e piena consapevolezza dell’essere-uomo sia capace di integrare senza lasciarsi disintegrare. Il lavoro riesce a distruggere buona parte di quello che uno ha imparato solo nozionisticamente, lasciando così dentro di noi solo quel tanto di verità che era vita, che era saggezza, quel tanto che è diventato parte del nostro essere al di là di tutto quello che abbiamo imparato, Il lavoro ci fa capire cose molto importanti: tra l’altro ci fa capire che lo studio non è l’unica realtà della vita. Logicamente non è da considerarsi lavoro soltanto quello manuale. Prima di tutto perché come il lavoro manuale coinvolge la nostra libertà e la nostra conoscenza, così anche il lavoro intellettuale fatto bene può implicare in qualche maniera tutto il nostro essere. E poi è anche lavoro e sacrificio, ad esempio, imparare quelle nozioni necessarie per lavorare meglio e per incarnare bene quello che si studia. È lavoro pure la fatica umana di leggere certe cose ardue, o d’imparare lingue difficili al fine di poter leggere certi autori. Chi ha il compito di studiare deve fare bene questo suo lavoro. Evidentemente tutto questo vale soltanto per quelle persone che vogliono non solo erudirsi, ma che vogliono dire qualche cosa. Per queste, il lavoro è parte essenziale anche degli studi. Proprio perché è la vita che fa capire. Non si può più concepire un tipo di cultura che implichi solo il raziocinio e l’intelligenza. È l’uomo nella sua globalità che deve venire implicato, l’uomo anima-corpo.