Una nuova Santuzza

Daniela Dessì interpreta con passione ed emozione Santuzza, nella Cavalleria rusticana al Festival di Taormina. Si replica lunedì 12 agosto
Daniela Dessì

Nell’anno di Mascagni una rilettura ed un riascolto della Cavalleria rusticana non è inutile, anzi, necessario. L’opera infatti è un capolavoro, e non solo dell’autore, ma di un teatro “veristico” che oggi è una moda bistrattare. Il fatto è che Cavalleria al di là della scarna semplicità di narrazione – la celebre novella di Verga riadattata per  il teatro lirico – è lavoro di squisita fattura musicale, di scansione scenica ardita (concentrare in un unico atto situazioni psicologico-affettive così incalzanti è cosa rara), e di ispirazione di getto: un fiume di musica sanguigna, molto “italiana”, e sotto certi aspetti- il conflitto di caratteri, ad esempio – molto “verdiana”.

La novità tuttavia mi sembra un’altra. La concezione di Mascagni – consapevolmente o meno (ma l’artista è ispirazione ed istinto insieme) – è un connubio felicemente riuscito di arcaismo mediterraneo e di cristianesimo siculo. Non per nulla Enrico Castiglione, regista e direttore del Festival di Taormina dove l’opera è stata rappresentata lo scorso 8 agosto – ha approntato sul palcoscenico una lunga e nuda croce  trasversale. La sobrietà della scena, commentata dallo splendido incanto del teatro greco, ha messo in risalto il dramma musicale con icasticità pregnante.

Sulla scena agiva Daniela Dessì al suo esordio come Santuzza. Un debutto preparato con cura, a giudicare dal risultato. La Dessì infatti ha reso quel che Mascagni ha intuito, all’epoca, senza esser mai prima stato in Sicilia.

Ossia, l’anima di un Mediterraneo ancestrale, arcaico, pre-cristiano, una Sicilia che ricorda l’atmosfera della Medea di Pasolini. Una recitazione sobria, emotivamente molto partecipata e coinvolgente, basata sullo studio della parola musicale, espressa subito da un gestualità mai ridondante: una passionalità fremente che la voce sempre bella, traforata di luce, del soprano ha espresso con la misura di una visceralità controllata e proprio per questo straordinariamente efficace

La Dessì ha “creato” una Santuzza dai furori ancestrali e dalle lacrime immense del dolore dei tragici greci. Turiddu, l’ingenuo e il violento macho, era Fabio Armiliato, attore consumato, voce tagliente come una spada, capace di abbandoni giovanili disperati (l’"Addio alla madre”).

Nei duetti della coppia il fuoco della passione, per quanto controllato da una recitazione mai barocca, mostrava scintille di verità psicologica e di canto impetuoso.

La Santuzza della Dessì è accorata:  la sua voce ha sempre dentro una lacrima, pare una voce che intuisca il dolore del vivere (“Voi lo sapete , o mamma”), sa piangere lacrime sincere nel duetto con Turiddu e si lascia andare, con il suo timbro cristallino, alla bellezza della melodia mascagnana, sostenuta da un’orchestra ben diretta da un professionista di valore come il brasiliano Luis Fernando Malheiro, dove spiccano i giovani (come il primo flauto Gianluca Campo che fa cantare delicatamente il suo strumento).

Bravi ed in forma anche il Compar Alfio di Valdis Jansons, la Lola scaltra di Giuseppina Piunti, la dolce  Lucia di Maria Josè Trullu. Elegante e perfetto il coro diretto da Francesco Costa. Suggestivi i costumi, che ricalcano le maioliche cinquecentesche così vivaci, di Sonia Cammarata, di una fattura molto fine.

Il pubblico  ha giustamente applaudito al massimo l’esecuzione, in particolare la Dessì che ha creato, con la sua Santuzza così vissuta, un nuovo modo di intendere e di intepretare l’opera di Mascagni, rivelandola ancora per quel capolavoro che  è. Si replica il 12.

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