Una nuova politica per il Mediterraneo
Gli ultimi giorni di campagna forsennata hanno rovesciato i comportamenti e Bibi ha sbaragliato il campo. Le sua parole d’ordine hanno in maniera estremamente rapida attecchito nel cuore degli elettori: la questione dell’Iran, sui cui Bibi era andato ad uno scontro durissimo con il presidente americano Obama, e la questione palestinese, con l’affermazione che non ci sarà Stato palestinese nel presente e nel futuro.
Bibi ha vinto, ma in un attimo si è trovato solo nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, con il terrorismo islamico che sembra crescere rapidamente sia come consenso che come forza militare.
Rimane il fatto che la società israeliana ha mostrato consenso verso una leadership, che sembrava indebolita, ma che è stata capace di parlare ai cittadini israeliani alle loro paure. L’Europa si è adagiata sui sondaggi, ma il risveglio appare brusco e drammatico. Unici dati positivi: il peso dell’elettorato arabo e la sconfitta del partito estremista dei coloni.
Questo domanda un cambiamento forte di registro da parte dei Paesi dell’Unione Europea. Fino ad oggi si è fatto molto, ma non sempre bene, nella cooperazione con la Palestina, ma si è dimenticato che la vera sfida era di aiutare il dialogo tra le due società, per far vincere una cultura della riconciliazione, che scomponga i muri e le paure culturali e politiche.
In questo Mediterraneo la forza militare non basta per garantire il futuro ad ogni Paese, compreso ad Israele. Non basta all’Europa che un giorno sì e un giorno no parla di navi e aerei militari, che dovrebbero tutelare (non si capisce come!) dalla iniziative terroristiche.
Dobbiamo costruire faticosamente giorno per giorno un dialogo con la società israeliana, prendendo sul serio le sua paure e il suo isolamento. È una battaglia culturale prima che politica, in cui è necessario avere visione più che la propaganda.
Dobbiamo insieme con i nostri amici israeliani intraprendere questa strada, altrimenti tra cinque anni la situazione sarà ancora più drammatica. Ho pensato molto ai parenti dei rabbini uccisi a Gerusalemme, che ho visitato il 20 novembre scorso, 36 ore dopo l’eccidio.
La loro mitezza e la loro compostezza mostrano un Israele diverso, non egemonizzato dalla cultura dello scontro e della guerra. Essi forse ci aiutano a comprendere questa strada difficile e delicata del dialogo e dell’incontro.
Ho pensato alle madri palestinesi e israeliane, che si sono incontrate nelle corsie degli ospedali, in cui vengono curati i bambini palestinesi e israeliani. E il dolore e la prova permettono di avere lo sguardo non più del nemico, ma dell’amico. È possibile una cooperazione che cambia lo sguardo e il cuore di tutti. Su questo deve investire l’Europa. Per me questo ha il nome di un progetto: “Saving children”, che va sostenuto, perché indica la via maestra di una grande politica.
Gli stessi palestinesi sono chiamati ad avere il coraggio della costituzione. La tragedia tunisina mostra che il vero modo per combattere il terrorismo è la democrazia, che fa la costituzione, che afferma la non violenza, la libertà religiosa, il Parlamento liberamente eletto.
Ecco la battaglia oggi per il riconoscimento dello stato palestinese. Bisogna fare la costituzione. Non ci sono scorciatoie, raccogliendo le parola dette a Ramallah da Abu Mazen il 25 novembre, proprio su questi punti. È un percorso difficile per le divisioni interne al mondo palestinese, ma va perseguito con grande determinazione. In questo la leadership di Abu Mazen si rafforzerebbe ulteriormente. Non si vince con la logica del tanto peggio, tanto meglio.
L’Europa deve sostenere questo processo. Gli Stati Uniti devono riconoscere lo Stato palestinese. È finito il tempo dei veti. Le parole dette dal primo ministro israeliano negli ultimi giorni della campagna elettorale hanno mostrato che non è possibile rimanere sotto scacco delle oscillazioni israeliane.
Obama deve dare un segnale chiaro che lo Stato palestinese e il suo riconoscimento sono parte di un disegno che coinvolge tutto il Medio Oriente. Non si può andare avanti con la politica della doppiezza nelle parole e nei comportamenti, soprattutto quando si vuole toccare il cuore dei popoli e dei cittadini.
Basti ricordare il piano Marshall da 80 miliardi di dollari per il Nordafrica e il Medio Oriente, lanciato al G8 di Deauville il 27 maggio 2011. Una idea promossa da Sarkozy, all’inizio della terribile guerra in Libia. Oggi tutto è peggiorato e il sostegno economico si è dissolto come acqua sui vetri.
Non si può giocare con la vita dei popoli, se manca la coerenza e il rispetto degli impegni presi, il terrorismo islamico ha già vinto la partita, al di là della sua forza militare, perché l’Occidente perde credibilità e forza culturale e politica.
Altro che navi e aerei militari, funzionerebbe di più una politica dignitosa, coerente nelle parole e nei fatti. Le armi sono una grande illusione: hanno l’unico scopo di favorire l’industria militare.
È quello che accade a Gaza, ad oggi abbandonata e distrutta come dieci mesi fa. È quello che è accaduto in Tunisia, lasciata sola dall’Europa in una transizione difficilissima e pericolosa.
E oggi se ne vedono gli esiti.
In questo quadro, drammatico e violento, è apparsa la fotografia di uno dei nostri concittadini Francesco Caldara, ucciso con una croce disegnata sul suo corpo, definendolo crociato.
In realtà Francesco non era un crociato, era ed è semplicemente un segnato dalla croce. Quella che è la sorte di tutti i cristiani: non crociati ma segnati dalla croce. Aveva già vissuto questo nella malattia dolorosa della moglie e oggi lo ha reso visibile davanti Bardo, in una terra che ha conosciuto in altri tempi il martirio dei cristiani.