Una morte annunciata?

Amy Winehouse si aggiunge alla lista delle stelle del rock finite male e troppo presto. Le pressioni di un successo arrivato troppo in fretta
amy whinehouse

C’era effettivamente da aspettarselo. Anche se è fin troppo facile dirlo oggi, aggregandosi all’infinità di coccodrilli che intasano il web in queste ore. Un epilogo drammatico che ingrossa ulteriormente la già cospicua schiera dei maudit del rock stroncati nel fiore degli anni. La maledizione dei ventisettenni, già la chiamano, l’età che ha accomunato tante altre stelle cadenti del firmamento di questo fragilissimo ecosistema. Una sub-cultura – mediatica molto più che artistica – che raramente ha saputo dar sostanza e durevolezza ai propri ideali e ai propri sogni: Brian Jones e Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison, fino a Kurt Cobain, uno degli ultimi dannati del rock planetario finito male e troppo presto.

 

Al pari dei succitati, anche la piccola, grande Amy non ha retto. Non ha saputo sopportare le pressioni di un successo arrivato troppo in fretta, non ha saputo costruirsi un equilibrio interiore, non ha voluto o potuto trovare transenne adeguate ai certi abissi caratteriali che probabilmente avevano radici ben più antiche del suo ingresso nel business musicale. Da qui gli eccessi consueti di un copione scritto mille altre volte: superalcolici a fiumi, tossicodipendenze, bulimia e anoressia, capricci esagerati ed escandescenze assurde. Il substrato tipico di un ambiente sempre pronto a nascondere sotto i tappetini e i lustrini del successo la propria inconsistenza o i propri drammi esistenziali. Il più prevedibile degli epiloghi è arrivato per lei in una notte qualunque di luglio, poche settimane dopo l’ennesima cura di disintossicazione e l’ennesimo tour gettato alle ortiche dopo un concerto – a Belgrado appena qualche giorno fa – imbarazzante e penoso come pochi altri.

 

Eppure Amy Winehouse di talento ne aveva a carrettate. Lo capimmo tutti fin da Frank, suo album esordio del 2003, e più ancora da quel Black to Black che l’incoronò regina del british soul tre anni più tardi. Un successo planetario, ancor più amplificato dagli atteggiamenti provocatori di questa minuta ex proletaria del Middlesex, figlia di un tassista d’origine russa e di un’infermiera. Una voce malata di jazz e di blues, straordinariamente intensa e personale nei suoi chiaroscuri; uno stile contaminato di negritudine e nutrito dall’energia del rock.

 

Ma ad Amy tutto questo evidentemente non bastava. E ben presto le inquietudini dell’intimo hanno fagocitato i Grammy e le gratificazioni del mondo: Amy si infila in un imbuto di depressione, ha le braccia piene di tagli e di buchi, beve troppa vodka, ci va giù dura di crack e di valium, e neppure il suo matrimonio del 2007 (finito due anni dopo) contribuisce a placare gli eccessi. Una biografia che sembra fotografare tutta la sballataggine della mitologia rock, e, al contempo, la penosa banalità dei suoi cliché.

 

Inutile aggiungere che toccherà attrezzarci per l’ennesima messe di produzioni postume che sempre accompagnano questi tristissimi epiloghi, in quel mix d’ipocrisia e sinceri struggimenti che ben rappresentano l’anima bifronte di questo baluginante carrozzone delle vanità. Ciao Amy: ti auguro tutta la pace che non sei riuscita a trovare da questa parte del cielo.

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