Una Messa-spettacolo
A Theatre Pierce for Singers, Players and Dancers: una rappresentazione teatrale per cantanti, attori, danzatori. Questa è Mass, anno 1971, che Bernstein compose su invito di Jacqueline Kennedy per ricordare, fra l’altro, il primo presidente cattolico americano. Bernstein non era cattolico ma riprese la Messa romana per inscenare un dramma dove si moltiplicano le riflessioni sulla vita, il dolore, la morte, la contemporaneità – allora ad esempio la guerra in Vietnam – e soprattutto sulla speranza e sul dramma della fede. Opera quindi “religiosa” ma non certo da eseguire in una normale liturgia (come in effetti La Messa di Requiem verdiana, al contrario del Requiem mozartiano).
Musica eclettica di grande suggestione: il gregoriano, il classico-sinfonico (la Nona di Beethoven, guizzi rossiniani…), il blues, il jazz, la dodecafonia, il gospel, la banda. Americanamente parlando c’è tutto, il mosaico di razze e culture del Nuovo Mondo che come un mago Bernstein distilla, cita, accoppia fra cori maschili e femminili, cori di bambini, danze scatenate stile musical e non solo di cantanti di strada, paraliturgie cattoliche e un invito tremendamente attuale alla pace.
Il celebrante che si prepara al rito, che Micheletto fa vestire senza paramenti, che ci crede, è contestato e crocifisso, crolla nella fede e poi la riscopre con la semplicità dei fanciulli è emblema dell’uomo di allora e di oggi, in crisi di fiducia nella vita.
L’opera, di quasi due ore, è un tripudio di suoni, di generi e di colori, di danze dinamicissime ed anche classicheggianti (il duo giovanile segno dell’innocenza perseguitata e ritrovata), miscela dell’uomo attratto dalla volgarità ma pure dalla purezza. Tragico e tormentato, violento come i muri che sui pannelli proiettano quelli che si vanno scavando tra i popoli anche ora, pieno di clamore, di ribellione e di silenzi cupi e desolati tra fontane di petrolio inquinante, lo spettacolo-celebrazione-riflessione, meraviglia e scuote. Alla fine, come all’inizio, la pace, la necessità della comunione canta nel ritrovarsi coralmente uniti, amici e nemici in un desiderio struggente di fratellanza.
Difficile, evidentemente, l’allestimento di un lavoro tanto complesso e a suo tempo criticato, ma in realtà oggi forse più comprensibile e non irritante come apparve allora con il suo “troppo” baroccheggiante ed eclettico – tipico di Bernstein – ma vibrante di tensione spirituale.
La direzione di Diego Matheuz è stata intelligente e sicura come i cori e come l’interprete maggiore, il baritono tedesco Markus Werba, attore splendido in scene difficili come nella crocifissione o nella disperazione, capace di esplosioni e di pianissimo sussurrati emozionanti. La regia di Damiano Micheletto ha reinventato la rappresentazione con un dinamismo energico ma aderente al testo, grazie ai costumi di Carta Teti, alle scene “metafisiche” di Paolo Fantin e alle coreografie vitali di Sasha Riva e Simone Repele che hanno visto danzatori perfetti nell’unire corpo e voce in questo “musical” particolare di Bernstein.
Grande spettacolo visivo e musicale, ma riflessione – che si spera sia stata recepita – concreta sulla fiducia nella vita, la cui mancanza è all’origine del buio.
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