Una meraviglia nascosta
Via Vittorio Emanuele 226. M’infilo nel portone ombroso di un palazzo settecentesco e torno indietro di duemila anni, stupito di uscire alla gran luce della cavea di un teatro romano ancora discretamente conservato tra gli incombenti edifici di epoche diverse. Non ce lo si aspetterebbe a Catania, dove prevale la fisionomia barocca del suo centro storico per la quale, insieme a sette comuni della Val di Noto, è stata dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Eppure la città etnea, più volte distrutta da eruzioni e terremoti e sempre ricostruita, vanta una storia millenaria: già insediamento sicano, dopo il XIII secolo a. C. divenne sede di un grosso villaggio siculo, poi rifondato come Catáne nel 729 a. C. da coloni greci calcidesi. Tralascio la complessa e tumultuosa storia successiva per tornare alla spettacolare visuale che mi si para davanti: questo teatro che, a partire dal Settecento, più campagne di scavo hanno gradatamente liberato dalle costruzioni che ne avevano manipolate e occultate le strutture: singolare stratificazione di cui ancora non è finita l’opera di demolizione e, in qualche caso, di recupero.
Tiatru grecu lo chiama la gente del popolo: e in effetti un teatro ellenistico viene citato dalle fonti classiche a proposito di un discorso tenuto all’assemblea cittadina da Alcibiade, il famoso uomo politico e stratega, per convincere i catenesi ad allearsi con Atene contro Siracusa. Quello che ora però sto ammirando, addossato alla collina di Montevergine su cui sorgeva l’antica acropoli, è il suo rifacimento ed ampliamento successivo alla conquista romana, per il quale poteva contenere circa settemila spettatori. Delle gradinate in pietra calcarea (ma originariamente erano rivestite di lastre di marmo) rimane una parte, mentre la cavea era divisa in nove cunei da scalinate in pietra lavica: un’alternanza cromatica di bianco e nero che tuttora caratterizza gran parte degli edifici storici catanesi. La scena, movimentata da nicchie, presentava una sontuosa decorazione marmorea costituita da colonne, statue e bassorilievi. Mentre percorro gli antichi ambulacri, facendo scappare qualche gatto che ha eletto domicilio qua e là tra i ruderi, percepisco qualche frammento di conversazione dalle finestre aperte dei palazzi che assediano il monumento e, più in sordina, il gorgoglio delle acque risorgive che abitualmente invadono l’orchestra, ossia lo spazio semicircolare tra la cavea e la scena. Edifici rappresentativi della singolare stratificazione edilizia che ha interessato l’area sono Casa Pandolfo, palazzina ad un piano del XVIII secolo, che ingloba notevoli resti di epoca medievale ed è sede del locale Antiquarium, e la Casa del Terremoto, che conserva integro l’arredo abbandonato l’11 gennaio 1693 in occasione del rovinoso sisma che devastò la Val di Noto.
E non è finita. Adiacente al grande teatro e col suo stesso orientamento, visito l’odeon, capace di circa 1500 spettatori. Destinato all’esecuzione di musiche e di danze (ma è probabile che fosse utilizzato anche per le prove degli spettacoli teatrali), questo edificio un tempo coperto (tectum) ritrova la sua antica funzione in estate quando viene utilizzato per manifestazioni musicali serali.