Una Lucia surreale
G.Donizetti, Lucia di Lammermoor. Milano, Teatro alla Scala. ¦ Quando, nella scena della pazzia, è la glassarmonica originale – e non il flauto della tradizione – a sostenere, commentare la trance estrema di Lucia, con il suo timbro lunare, la vertigine amorosa espressa dalla melodia tocca i vertici del surreale. Sono suoni di un altro mondo, evocano l’ora e per sempre dell’amore nell’estasi dolorante tipica di una donna innamorata, ferita. Ma fedele ben oltre la morte. Canto dello strumento e canto della voce si richiamano, gareggiano in espressione sentimentale. È la pazzia più celebre dell’opera romantica, cui corrisponde l’altra pazzia, quella del coprotagonista Edgardo che si trafigge per amore. Per lui la vita ha senso solo se ricongiunta a Lucia. Super-romanticismo, si dirà, in questa storia fosca – tratta da Walter Scott – di tragedie, duelli, notti tempestose, fantasmi, rancori invincibili, e tante lacrime. Donizetti ci crede davvero, inventa musiche ispirate, una strumentazione calzante in ogni punto – straordinario il rilievo dato a viole, corni e clarinetti – : insomma, un capolavoro, dal 1835, sull’amore: al femminile e al maschile. Di giovani, soprattutto, perché i due rivali, Enrico ed Edgardo, sono irruenti e umorali come sanno esser i giovani. L’edizione scaligera, ripristando l’allestimento di Pier’Alli, sfondo incupito alla tragedia incombente, sempre morbido ed elegante come la sobria regia, è stata concertata e diretta da Roberto Abbado. Corretto, con i tempi giusti, ha dato rilievo, in orchestra, a certi fremiti degli archi gravi e ad alcune mareggiate delle viole assai efficaci, insistendo sulle percussioni, lasciando il bel canto alato ai violini scaligeri. Scarsi i tagli, per fortuna, presenti le più note puntature sopranili e tenorili: la protagonista Patrizia Ciofi ha bel timbro, giusto fraseggio, capacità negli acuti; le è alla pari l’Enrico misurato di Roberto Frontali. Meno valido l’Edgardo di Antonio Gandia, voce fresca, ma bisognosa forse ancora di studio. Sempre buono il coro. Successo assicurato, grazie ad una musica che non conosce tramonto. PIANISTI A ROMA Roberto Prosseda. L’integrale dei Notturni di Chopin. Teatro Ghione. Due ore quasi di canto pianistico da parte di un giovane interprete di razza, che non stanca mai: eleganza innata, facilità mnemonica assoluta, capacità di simbiosi totale e immediata con l’autore. Così Chopin si svela com’è: ogni notturno, una lirica che spazia attraverso la filigrana dell’anima, coglie emozioni inusitate, con virile dolcezza. Prosseda fraseggia con misura, delicato e forte, sgrana i sentimenti non solo di Chopin ma di ognuno di noi, quando sa parlare con sé stesso. Paul Badura – Skoda. Beethoven, Quinto Concerto per pianoforte e orchestra. Auditorium Conciliazione. Con misura, diretta da Julian Kovatchev, l’Orchestra Sinfonica di Roma ha accompagnato il grande pianista in un Beethoven impetuoso, nostalgico e brillante. Anziano, ma sempre vitale, il pianista mi ha ricordato l’ultimo Rubinstein che poteva anche sbagliare nota, qualche volta, ma era un fatto insignificante: tanta era la bellezza, l’energia, il furore interpretativo che contagiava il pubblico. Ben oltre la semplice lettera dello spartito. Così è accaduto anche a Roma.