Una lotta contro il tempo

Aurangzeb era rimasto lì seduto per due giorni, seppur ferito e dolorante. Ma non riusciva a staccare lo sguardo dalla mano di sua figlia morta che spuntava dalle macerie. Lo hanno dovuto portare via con la forza, mentre ripeteva tra le lacrime il suo amore inconsolabile: Devo vegliarla; e se viene un animale a mangiarla? Chi sarà qui a proteggerla?. Yasmin è invece una bambina che ancora non parla. Le chiedo quanti fratelli abbia, e lei risponde alzando timidamente tre ditini. Poi le cala un velo triste sugli occhi, volge lo sguardo a terra e abbassa un ditino, un fratellino non è più vivo. Ruksana, una giovane mamma, può raccontarci la sua storia perché era fuori, stava andando dal sarto per farsi dei vestiti per la festa di Eid-ul- Fitr, per la fine del mese di digiuno del Ramadan. Avevamo tutto qui a Muzaffarabad: scuole, ospedali, negozi… Non è rimasto niente, anche le montagne non sono più le stesse, anche loro sono distorte. Siamo tutti corsi a casa, io, gli uomini che erano nei campi, tutti correvano. Abbiamo cercato sotto gli edifici crollati, estratto tutti quelli che potevamo. Ce n’erano altri intrappolati, li sentivamo ma non abbiamo potuto liberarli, il peso del cemento armato era troppo grande sopra di loro… eravamo sfiniti. Peggio dello tsunami A distanza di un mese dal catastrofico sisma dell’8 ottobre nel Kashmir indo-pakistano il bilancio è sempre più terrificante: oltre 80 mila morti, altrettanti feriti, più di tre milioni di senzatetto, circa 50 mila persone ancora non raggiunte dagli aiuti, centinaia di centri abitati rasi al suolo. Ancora si fatica a superare l’incredulità di fronte a questa disperata e improvvisa crisi umanitaria. Anche il rappresentante delle Nazioni Unite è attonito: non sa nemmeno lui come far capire l’entità del dramma che ancora si vive, e che è invece inspiegabilmente scomparso dai media internazionali, quasi si trattasse di un affare risolto. Aggiunge però con forza che si tratta dell’incubo logistico più grande della storia. L’emergenza è ancora tristemente attuale. Con molte strade divelte, le comunicazioni interrotte, le continue frane delle montagne così friabili, i villaggi sperduti e remoti, gli ingorghi nelle strade percorribili, è difficilissimo far pervenire gli aiuti prima dell’inverno, non sempre gli elicotteri possono atterrare. Per fortuna gli americani dall’Afghanistan hanno mandato gli enormi elicotteri a doppia elica Chinook che riescono a trasportare anche qualche ru- spa, per liberare le strade. Ma la temperatura nel Kashmir ha già raggiunto lo zero. I venti freddi, la neve, il gelo stanno arrivando veloci come fantasmi di morte, specie per chi non ha più la casa, è senza tende e senza coperte. Le operazioni di soccorso si rivelano ancora più ostiche perché il Kashmir giace su una delle faglie politiche, e non solo geologiche, più difficili. Pakistan e India, oggi potenze nucleari, hanno combattuto due guerre per il controllo di questa regione, che attualmente è una delle zone più militarizzate al mondo. Ma la comune tragedia ha costretto i due vicini a far saltare i rigidi schemi difensivi per far arrivare gli aiuti ai terremotati. Pur tra dubbi, prudenze e ponderate discussioni, la linea di controllo (Loc) – demarcazione fissata dopo la guerra del 1971 e pesantemente difesa – proprio in questi giorni è stata aperta in cinque punti per consentire ai kashmiri di portare aiuti ai loro parenti dall’altra parte della Loc. Si parla addirittura di far sminare alcune zone di confine. Si è posposto l’acquisto di aerei da combattimento F16. Sarebbe davvero incredibile se una tale tragedia umanitaria risultasse in una rinnovata pace in Kashmir! Occorrerà attendere per vedere l’evoluzione della situazione. Nelle zone colpite Intanto nelle zone limitrofe all’epicentro del sisma le città e i villaggi sono devastati. Per esempio, Balakot, una delle città più colpite, non ha più nessuna casa, è una città fantasma. Molti kashmiri che incontro ci dicono che hanno perso chi dieci, chi quindici, chi anche trenta parenti. Eppure mostrano una dignità eroica e il loro tipico orgoglio, con un senso sacro dell’ospitalità che in questi momenti è ancora più commovente. Nessuno riesce più a dormire in casa. Le frequenti scosse di assestamento (oltre 1200, di cui una decina sopra il quinto e anche sesto grado della scala Richter) spezzano i nervi a tutti e la paura è una malattia difficile da combattere. Eppure Hussain reagisce: Sono ancora terrorizzato di dover vivere sotto un tetto, ma non partirò. Questa è la mia casa. Qui è dove sono nato e dove ricostruirò la mia vita. Una scuola di un villaggio vicino a Balakot è crollata su 300 bambine. Non era possibile estrarre i corpi ed hanno deciso di dichiarare la zona un cimitero. Così hanno anche recintato un intero villaggio completamente distrutto. Di fronte a tale sofferenza l’unica risposta possibile è la condivisione concreta, delicata e sincera, che va al di là delle diversità e delle diffidenze, che costringe ad essere più vicini come uomini, in una profonda e rinnovata esperienza di fratellanza universale. A Rawalpindi, in uno dei numerosi campi di assistenza ai terremotati c’è un’atmosfera strana in questi giorni dopo la fine del Ramadan. Anche in tutto il resto del paese la festa è stata semplice e senza sprechi, per rispetto. Non c’è voglia di festeggiare, il futuro spaventa con la sua totale incertezza. Eppure i bambini trovano il modo di giocare, di invogliare anche gli adulti a non lasciarsi andare, a ritrovare la forza di vivere. Visitando un campo per sfollati salta subito all’occhio la mancanza di una generazione. Ci sono i bambini e gli adulti, non ci sono i giovani: erano tutti studenti e sono rimasti sepolti sotto le loro scuole crollate. I volontari della protezione civile si aggirano con gli sguardi un po’ persi, questa emergenza inaspettata trova tutti impreparati. Munir, un uomo sulla cinquantina mi invita a seguirlo: Vieni, ti mostro dove vivo con la mia famiglia . Passando oltre le fitte e strapiene tende, arrivo ad un vecchio edificio che non conoscevo. È nascosto e diroccato, il tetto sta crollando. Qui, tra i calcinacci, ci sono sua moglie e i sei figli. Uno ha appena otto mesi. Tutto quello che possiedono è qui, il sottile tappeto e tre coperte che si dividono. E come arma contro il freddo e gli insetti si infilano in testa un sacchetto di plastica. Improvvisamente il cuscino che uso normalmente a casa non mi sembra più così indispensabile. Negli strapieni ospedali di Islamabad e Rawalpindi sono più di 700 i paraplegici che hanno bisogno di cure, assistenza e fisioterapia per evitare danni peggiori. La responsabile di Handicap International, che ha alle spalle una vasta esperienza in emergenze mediche internazionali, allarga le braccia, è incredula: i paralizzati di altri terremoti come Turchia o Iran erano di solito circa 150. Finché si troverà una soluzione adeguata, sopperiscono i volontari che mantengono viva la solidarietà concreta. I posti letto sono tutti occupati: hanno messo la gente nei corridoi, per terra. Poi sono arrivati – non si sa da dove – 200 letti e la situazione è un po’ migliorata. Quando un amico comincia a lavare la testa a Farooq Khan, il vecchietto senza denti del corridoio 7 rimasto paralizzato, lui scoppia a piangere e continua a ringraziare. Non per il piccolo servizio necessario, ma per l’affetto che ha sentito e che ha riempito un po’ della sua solitudine e disperazione di aver perso tutto, persone e beni. E la riabilitazione fisica, psicologica e spirituale delle centinaia di migliaia di persone terremotate è forse una sfida ancora più grande della ricostruzione. I nostri amici si sono organizzati in gruppi per visitarli. Alcuni ti trattano come se fossi un angelo venuto dal cielo, altri si legano a te come aggrapparsi alla vita. Quando ritorni? Ieri non sei venuta… Le cose materiali non sostituiscono il vostro amore… Ciò che fate è prezioso, ci date il vostro tempo, ascoltate le nostre storie e sofferenze, ci sentiamo meno soli, troviamo in voi dei fratelli, delle sorelle… Quando venite a visitarci dimentichiamo i nostri dolori. Un appello La forza della natura ha messo in evidenza due paradossali caratteristiche dell’umanità: la sua fragilità, ma anche la sua toccante forza d’animo, per la capacità di spendersi senza risparmio per gli altri. Non si riesce proprio a rimanere inerti di fronte alla tragedia dei tanti morti sepolti sotto le macerie, ai volti di bambini rimasti orfani, allo smarrimento di tante donne ora non più protette dalle mura domestiche, alle centinaia di amputazioni che avvengono negli ospedali. La solidarietà, anche quella internazionale, non manca, ma è ancora insufficiente, in un’inaspettata lotta contro il tempo e le enormi necessità. Di fronte alle vite di tante persone, la società internazionale non può voltarsi dall’altra parte e far finta di nulla. Ma anche ciascuno di noi può fare qualcosa di concreto: non dimenticare questa gente che soffre e che fatica a ritrovare la speranza ed a costruirsi nuovamente un futuro. COME AIUTARE Chi desidera inviare aiuti per l’emergenza in Pakistan attraverso i Focolari locali e l’Amu, può inviare i contributi nei modi descritti a pag. 27 nella rubrica Guardiamoci attorno.

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