Una lettera invita all’unità
La lettera di Benedetto XVI «ai confratelli vescovi» del 10 marzo punta dritto alla posta veramente in gioco. Un gesto inconsueto, nello stile e nel contenuto, che attesta con umiltà e trasparenza lo spirito che anima il papa. Non ci aspettavamo, per un verso, un atto come questo; eppure, per un altro, esso risponde a un’attesa che, se accolta nel giusto modo, può provocare un balzo in avanti nel cammino che Dio sembra tracciare passo passo davanti a noi.
La remissione della scomunica ai quattro vescovi consacrati da Lefebvre senza mandato della Santa Sede ha fatto smottare una tale valanga d’incomprensioni e recriminazioni che – nota il papa – ha finito col mettere allo scoperto un malessere più antico e profondo. Certo, vi sono stati nella vicenda vistosi incidenti di comunicazione. Il fatto che il papa non sia stato messo al corrente delle tesi negazioniste circa la Shoah del vescovo Williamson, insieme a una ben orchestrata campagna mediatica, hanno fatto apparire un «gesto discreto di misericordia» come un passo indietro rispetto al Vaticano II sulla via della riconciliazione tra ebrei e cristiani.
D’altra parte, la notifica della remissione della scomunica non era stata accompagnata da una spiegazione sufficientemente chiara: togliere la scomunica ai quattro vescovi era nell’intenzione del papa un ulteriore invito al ritorno nella grande Chiesa, restando immutata la necessità di un riconoscimento pieno e sincero, da parte loro, del Vaticano II.
Ma al di là di questa bagarre, Benedetto XVI invita i cattolici a un esame di coscienza. Non è forse lo spirito di comunione quello che oggi difetta, a tutti i livelli, nella Chiesa? Quella comunione che il Vaticano II, erede della grande tradizione, ci ha indicato come bussola del cammino?
È questa la conversione richiesta. A tutti. E il papa fa il primo passo, ribadendo con chiarezza e determinazione le linee direttrici del suo pontificato. Esse si concentrano nell’impegno a «rendere Dio presente in questo mondo» e ad aprire agli uomini l’accesso «a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine – in Gesù crocifisso e risorto».
Se quest’impegno è prioritario in ogni tempo, lo è in modo singolare oggi, quando assistiamo allo «spegnersi della luce proveniente da Dio» nel cuore di tanti, così che «l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più».
Ma come la luce di Dio può essere riaccesa? Questo il punto. La risposta del papa fuga ogni dubbio: attraverso l’unità dei discepoli di Gesù. Di questo impegno sono elementi costitutivi l’ecumenismo tra i cristiani, la ricerca della pace e il comune cammino «verso la fonte della Luce» nel dialogo interreligioso, la dedizione nella società ai sofferenti respingendo ogni forma di odio e inimicizia.
Ciò che dobbiamo sempre di nuovo imparare è «la priorità suprema: l’amore». E il giusto uso della libertà: non per distruggersi a vicenda – come scrive l’apostolo Paolo – ma «per metterci a servizio nella carità gli uni gli altri». Anche andando incontro al fratello che «ha qualche cosa contro di te».
L’unità non è né un’imposizione né l’effetto di un colpo di bacchetta magica. È dono di Dio e arte affascinante e costosa da imparare e praticare. Tornano alla mente le parole profetiche di Chiara Lubich: «Unità: parola divina. Se a un dato momento venisse pronunciata dall’Onnipotente e gli uomini l’attuassero nelle sue più varie applicazioni, noi vedremmo il mondo di scatto fermarsi nel suo andazzo generale, come in un gioco di film, e riprendere la corsa della vita in opposta direzione».