Una legge contro le conversioni in India
Le ultime settimane hanno visto riaccendersi in India il dibattito attorno alla questione della libertà religiosa e delle conversioni, argomenti tradizionalmente molto delicati in una società, come quella indiana, che da sempre ha difeso la sua laicità a fronte della ricca presenza multi religiosa. Gli indù, infatti, restano una netta maggioranza (il 78 per cento) rispetto ai musulmani (13 per cento) e ai cristiani (poco più del 2 per cento) e ad altre affiliazioni religiose (sikhs, gianisti, buddhisti ed ebrei). La vittoria nelle elezioni della scorsa primavera del Bharatya Janata Party, che si ispira all’ideologia dell’Hindutva, che prevede che l’India sia patria dei seguaci del Sanatana Dharma, le religioni con radici vediche, normalmente sintetizzate nel termine ‘induismo’, aveva fatto prevedere ai più che la questione religiosa sarebbe riemersa.
Recentemente, attacchi a luoghi di culto (chiese cristiane) e gesti di intemperanza nei confronti delle minoranze, sia musulmana che cristiana, hanno riportato il tema in primo piano. Fa discutere, soprattutto, il Ghar Vapasi, letteralmente ritorno a casa, un processo che prevede la riconversione all’induismo di gruppi di cristiani e musulmani, secondo una pratica maturata nel XIX secolo dalle idee e prassi di un noto riformatore locale, Swami Dayananda, fondatore dell’Arya Samaj. Il processo del Ghar Vapasi è stato realizzato da alcuni gruppi di ispirazione fondamentalista indù (il Dharm Jagran Samiti, parte del più vasto Rashtriya Swayamsewak Sangh (RSS) e del Bajrang Dal), soprattutto, nel nord dell’India, in zone di slums e con buona percentuale di dalits (fuori casta), che in passato si erano convertiti ad un’altra fede (Islam). Da parte cristiana è stata, poi, contestata anche la proposta del governo di far coincidere il 25 dicembre con la ‘Giornata nazionale del buon governo’ (Good Governance Day). La decisione a favore di una tale coincidenza toglierebbe il vero significato religioso al Natale, come festa cristiana, l’unica prevista dal calendario governativo, insieme al Venerdì Santo.
Proprio nei giorni precedenti alla celebrazione del Natale, il National United Christian Forum (NUCF) – in rappresentanza della Conferenza episcopale cattolica indiana (CBCI), del Consiglio Nazionale delle Chiese (NCC) e del Comitato Evangelico dell’India (EFI) – ha dichiarato che l’intenzione del governo di presentare un disegno di legge che proibisca le conversioni significa tentare “un attacco diretto alla libertà di coscienza delle persone per la scelta della propria fede e alla libertà di professare, praticare e diffondere la religione, come previsto dall’articolo 25 della Costituzione.” Il documento sottolinea che, da un lato, le Chiese sono attente a far sì che le conversioni non avvengano sotto costrizione o con inganni e sotterfugi e, dall’altro, che l’articolo in questione era stato inserito nella Costituzione dell’India, dopo un lungo ed articolato dibattito, che mirava a mantenere la laicità del Paese, senza minare i diritti inalienabili degli uomini e delle donne che ne sono i cittadini.
Il Forum ha inteso sensibilizzare il Primo Ministro Narendra Modi e politici e parlamentari del fatto che lo sviluppo del Paese è legato ad un rapporto armonico fra i vari gruppi religiosi e, al contempo, ha insistito come la comunità Cristiana sia “da sempre in prima linea per servire il Paese, oltre che ad essere presente in India da circa duemila anni”. I cristiani sono stati ultimamente colpiti non solo da attacchi a chiese, ma anche da altri preoccupanti episodi: per esempio, la proibizione agli alunni di una scuola cattolica di rivolgersi al direttore con l’appellativo di father (don) e l’obbligo in un altro istituto didattico cristiano di installare la statua di Saraswati, una divinità della ricchissima mitologia indù.
Mentre il comma 1 del’articolo 25 della Costituzione Indiana recita che tutte le persone hanno uguale diritto alla libertà di coscienza e alla professione, alla pratica e alla diffusione della religione, si sta ora discutendo sulla necessità di distinguere il diritto a propagare e diffondere la propria fede da quello di convertire persone di altre religioni alla propria religione. Mentre si riconosce che il primo resta un diritto fondamentale, il secondo aspetto, se realizzato attraverso la forza o a mezzo di frode o incentivi, è, invece, ritenuto illegale. Come detto, il problema è al centro di un dibattito che dura da decenni. Dopo vari interventi della Corte Suprema in merito alla competenza degli stati – l’India è una repubblica con un ordinamento fondato su governo centrale e governi statali, che si dividano competenze specifiche – di legiferare o meno in merito alla questione della libertà religiosa, il Parlamento nella sua sessione invernale è tornato sull’argomento. Il Ministro delle finanze Arun Jaitley, ha pubblicamente presentato un’interrogazione per conoscere se l’opposizione parlamentare “fosse a favore di un divieto assoluto sulle conversioni o se ci si dovesse limitare a casi dove è dimostrabile che il convertito è stato costretto all’atto di cambiare la propria affiliazione religiosa. “Il governo – ha dichiarato Jaitley, uno dei politici più rappresentativi del fondamentalismo indù – è aperto ad entrambe le alternative”.
La questione della conversione era finita sul tavolo dei politici già il 6 dicembre 1948, quando, in sede di Costituente, si accese un dibattito molto significativo sulla questione del ‘diritto a diffondere’ la propria fede come di un diritto fondamentale o meno. I padri della Costituente vissero uno dei momenti più complessi nella stesura della Carta Costituzionale, rendendosi conto di quanto la religione rappresentasse un nodo delicato per l’intero Paese e per i suoi equilibri interni. A fronte di altre posizioni, emerse con particolare forza, la necessità di insistere sulla tradizione degli ideali e concetti religiosi che hanno da tempo immemorabile contraddistinto la cultura indiana e che parlano di tolleranza ed accettazione della diversità culturale e religiosa. Per questo non si era ritenuto opportuno negare a nessuno la possibilità non solo di professare e praticare, ma anche di diffondere il proprio credo. Nel corso degli anni il Paese ha, poi, vissuto momenti di tensione fra indù e musulmani e anche fra indù e cristiani e indù e sikhs, che hanno portato a tentativi di leggi contro la conversione religiosa in vari stati. In alcuni di essi (Madhya Pradesh, Arunachal Pradesh, Gujarat ed Odisha) tale legislazione è ancora in vigore, in altri è stata abrogata o mai approvata o, addirittura, ritirata prima di essere discussa nel parlamento statale (Tamil Nadu). In passato, la Corte Suprema ha ribadito che il diritto a diffondere la propria religione non significa il diritto a convertire altri alla propria fede, ma solo a presentare e spiegare i suoi aspetti fondamentali ed i suoi principi. Ancora nel 1950 la stessa Corte Suprema era intervenuta a chiarire che conversioni forzate possono portare ad accendere la rivalità fra gruppi appartenenti a religioni diverse e, quindi, possono costituire una minaccia all’ordine pubblico dello stato. Attualmente in una delle legislazioni statali che regolano la questione delle conversioni nello stato del Madhya Pradesh, chiunque desidera cambiare religione deve dichiararlo davanti al Magistrato del Distretto (Provincia) di competenza.
Nei giorni precedenti al Natale è intervenuto in merito alla questione anche il Card. Gracias, arcivescovo di Mumbai e segretario generale della Federazione delle Conferenze Episcopali Asiatiche (FABC). La Chiesa in India, ha affermato il cardinale in un'intervista ad AsiaNews , "si oppone con forza" a qualsiasi Legge sulla libertà religiosa e userà "qualsiasi mezzo possibile", fra cui il "ricorso alla giustizia" per ottenerne la cancellazione. Gracias ha aggiunto che "le norme esistenti sono adeguate per contenere gli abusi legati alle conversioni", così come il diritto alla libertà di coscienza e di religione "è parte dei diritti di base di ogni cittadino indiano". A dimostrazione di quanto sia inutile una legislazione contro la possibilità di cambiare la propria fede i cristiani fanno notare che la loro presenza, sebbene molto apprezzata per i servizi sociali ed educativi, da molto tempo è ferma al 2,3 per cento dell’intera popolazione, a chiara dimostrazione che "non possono certo essere tacciati di conversioni forzate".