Una grande Norma al San Carlo
Che meraviglia il Teatro di San Carlo a Napoli. Di una eleganza aristocratica, splendente di luci e di colori, dall’acustica invidiabile da parte di altri grandi teatri, la Scala compresa. Si è rappresentato fino al primo marzo un nuovo allestimento di Norma, il capolavoro di Vincenzo Bellini, anno il 1831. Opera difficilissima per diversi motivi. Richiede un quartetto di interpreti – soprano, mezzosoprano, tenore e basso- che sappiano unire capacità belcantistica e forza attoriale nella “tragedia lirica in due atti” sui versi ispirati di Felice Romani, ambientata nella Gallia occupata dai Romani, ove la sacerdotessa Norma, tradita dall’amante romano Pollione con la giovane Adalgisa, vive una tragica storia d’amore e di perdono. Non esente da echi classici, da Fedra e Medea, e da sussulti romantici di foreste oscure, preghiere alla luna in versi leopardiani (“Casta diva”), passioni esasperate e impeti guerreschi. Nel secolo scorso è stata l’opera prediletta di Maria Callas, insuperabile interprete della donna divisa tra dovere e amore.
Ma Norma è difficile anche per il coro, coprotagonista ora violento ora sospeso, e per l’orchestra, di una raffinatezza straordinaria. Ci voleva un direttore esperto e preciso come Nello Santi, bacchetta felicissima del nostro repertorio – un grande – a scandagliare le raffinatezze timbriche e coloristiche della strumentazione bellianiana, solo apparentemente semplice, ed invece chiara, mossa, e con suggestive zone d’ombra (certi passaggi degli archi gravi, certi lugubri accenti dei corni). L’orchestra sancarliana ha suono bello, affettuoso: raramente il preludio alla “Casta diva” ha visto la melodia infinita del flauto (Bernard Labiausse) elevarsi in un unico arco di tanta purezza di timbro, o i clarinetti così teneri accompagnare e suggerire il canto, come anche il primo oboe Domenico Sarcina. Ma di tali dettagli (si pensi ai soli violini primi) la rappresentazione è stata molto ricca e merito non piccolo va certo a Santi che sprona, addolcisce, silenzia e accompagna il canto come solo i grandi direttori, che lo amano, sanno fare.
Una star della serata è stata comunque Mariella Devia, oggi la massima belcantista che è diventata attrice credibile, autentica, di notevole spessore. La sua “Casta diva”, eseguita con respiri lunghi, con acuti sicuri e modulazioni armoniose è stata soggiogante, come pure i momenti di furore – il finale del primo atto, rabbioso e scalpitante di lacrime ed ira “Ah di qual sei tu vittima” -, di tenerezza – lo struggente “Teneri figli” del second’atto con quel preludio dei violoncelli che suggestionerà il Verdi della Traviata -, di abbandono e di supplica: l’aria finale “Deh, non volerli vittime” in cui Norma affida al padre i bambini prima di morire sul rogo, un singhiozzo in musica ove la Devia è stata di una immacolatezza espressiva commovente.
Accanto a lei, l’esordio di un tenore energico e melodioso come Stefan Pop (finalmente un Pollione “vivo”, speriamo non sciupi la voce con troppo lavoro e col repertorio verista), il mezzosoprano Laura Polverelli, voce calda e forte, capace di duettare all’unisono con autentica ispirazione con la Devia ed infine la virile prestanza vocale di Carlo Colombara, un Oroveso morbido e squillante al tempo giusto, anche pacato e commosso.
L’allestimento, un volta tanto, non era trasgressivo, pur senza ripiegarsi sul già visto. Ezio Frigerio, da artista attento al dato musicale, ha creato scene ed immagini di suggestione misteriosa, con fiamme tra selve, antri e foreste più accennate che descritte, ed infine il grande incendio conclusivo d’amore e di dolore, di purificazione della passione com’è sempre in Bellini.
Pacata e innovativa la regia di Lorenzo Amato che fin dall’inizio mette sul palcoscenico i due figli piccoli di Norma, vittime inconsapevoli delle tragedie familiari, che circonda poi la profetessa nel momento finale con il coro aggressivo e timoroso al contempo, e che muove la recitazione dei protagonisti sul registro della misura, puntando più all’interiorirà, data l’eloquenza della musica.
Pubblico attentissimo, silenzioso ed infine standing ovation per tutti e per il veterano maestro Santi.
Un evento certamente questo napoletano, da riproporre nei teatri italiani e non solo, a riprova del rispetto per la grande musica da parte di un grande teatro, che ora attende il Falstaff verdiano nell’anno delle celebrazioni scespiriane.