Una famiglia unita
Emmaus, lei è stata la prima presidente dopo la morte della fondatrice nel 2008. Cosa ha significato questo impegno alla guida del Movimento?
Maria Voce: «Fin dall’inizio, ho capito che non avrei dovuto copiare Chiara. Ho sentito la libertà di esprimermi, attingendo sempre a lei, ma senza ripeterla. Per questo in ogni occasione mi chiedo: cosa farebbe Chiara per dare la luce del carisma, rispondendo ai bisogni di oggi?».
11 anni sono tanti. Come li ha vissuti?
Maria Voce: «All’inizio, quando mi sono resa conto che l’Assemblea si stava orientando sul mio nome, ho avuto una grande paura. Ho chiesto a Chiara, davanti alla sua tomba, se fosse proprio questo che voleva. Ho sentito come se mi rispondesse: “Ti ho messo davanti Gesù abbandonato, ti vuoi tirare indietro?”. Chiara mi affidava l’Opera, con quel volto che dovevo abbracciare e amare. Poi, negli anni, tante volte ho avuto l’impressione che questo compito fosse troppo pesante per me. Ma ogni volta ho sentito Chiara che mi aiutava e che potevo contare sull’unità di tanti. Chiara, infatti, ha lasciato un corpo ben formato, l’Opera di Maria (nome ufficiale dei Focolari, ndr), che mi ha sostenuto. Se poi penso ai viaggi e ai problemi che ho affrontato senza essere travolta, c’è stata anche una grazia. Giorno per giorno».
Come ha trovato l’Opera?
Maria Voce: «Un po’ spaventata, preoccupata di come andare avanti. Si capisce: era morta la fondatrice, che negli ultimi 4 anni non era stata bene. C’era un senso di abbandono, di orfanezza, di disorientamento. Dovevo accompagnare questo dolore, aiutando però tutti ad uscire da quell’incertezza. Il mio primo viaggio dopo l’elezione è stato in Africa, a Fontem: volevano celebrare con me il “giorno della fine del lutto”, secondo la loro tradizione. In quell’occasione ho pensato che avevamo sofferto per la partenza di Chiara, ma ora lei ci chiedeva di guardare avanti. L’Africa mi ha aiutata a fare questo passo, con tutta l’Opera».
E oggi l’Opera com’è?
Maria Voce: «Più tranquilla e serena. In questi anni abbiamo condiviso la responsabilità della vita dell’Opera: ognuno quindi si è sentito partecipe delle difficoltà, ma anche sicuro che insieme ce la possiamo fare. Nessuna persona dell’Opera si sente sola, almeno spero. Questa è la mia esperienza: una famiglia unita dà la sicurezza che si può andare avanti».
Come è stata l’esperienza da co-presidente?
Jesús Morán: «All’inizio sentivo un grande senso di inadeguatezza. Anche davanti ad Emmaus ero quasi intimorito dalla sua esperienza e maturità. Inoltre mi sentivo più portato per la formazione, che per il “governo”. Invece poi è stato semplice, soprattutto per l’unità con Emmaus e con i consiglieri. In questi anni mi sono sentito trasportato dalla “grazia di stato”, un concetto che non dovremmo buttare in un cassetto, pur stando attenti agli eccessi del passato. Io l’ho sperimentata come sostegno».
Maria Voce: «Vorrei aggiungere un concetto importante: il senso di servire un’opera di Dio. Questo ti mette dentro una grande gratitudine, una grande serenità, per cui, pur essendoci tanti problemi, fai tutto con gioia perché sai che stai servendo un’opera di Dio. La presidente non è “quella che comanda”, ma “quella che ama” la grande famiglia dell’Opera. Sente i pesi e le sofferenze, certe volte non sa come fare, ma vive sempre un senso di maternità verso tutti, anche verso quelli che magari ti fanno soffrire o ti tradiscono».
Essere un uomo di cultura è una difficoltà aggiuntiva?
Jesús Morán: «No. Come co-presidente ho dovuto sviluppare proprio l’aspetto culturale, al servizio dell’Opera. Molto più di quello che pensavo. Mi è stato di modello, senza assolutamente pretendere di paragonarmi a lui, Pasquale Foresi (il primo co-presidente, ndr), il quale con scritti e discorsi si è sempre sforzato di mediare, di incarnare il carisma di Chiara, sia in termini ecclesiali che sociali. Anch’io ho cercato di farlo, aiutato dall’amore di chi mi stava intorno. Un amore “forte”, reale».
Cosa vi dispiace di non essere riusciti a portare a termine?
Maria Voce: «Due punti soprattutto. Il primo è il riconoscimento della piena appartenenza all’Opera di tutti quelli che ne fanno parte, a qualsiasi Chiesa appartengano. Evidentemente l’Opera non è ancora riuscita ad esprimere fino in fondo l’unità che c’è già, al di là delle differenze. Su questo punto continuiamo a lavorare, ma con pace, rispettando i tempi di Dio. Il secondo punto è l’incardinazione dei sacerdoti. Abbiamo focolarini che, per diventare sacerdoti, devono essere incardinati in una diocesi, che poi li può mettere a disposizione dell’Opera. Sempre però in modo provvisorio e non ben definito. Vorremmo che questi sacerdoti fossero riconosciuti e incardinati nell’Opera».
Jesús Morán: «Un terzo punto non ancora completamente sviluppato è il progetto formativo e culturale, a partire da quello che Chiara ha detto, ma attualizzato all’oggi. E mirato soprattutto alla fascia giovanile».
Cosa intende per progetto formativo?
Jesús Morán: «Il progetto ha a che fare con la trasmissione del carisma, che deve “riempire tutte le dimensioni dell’uomo”, come ha detto il papa a Loppiano: la testa, il cuore e le mani. Chiara ha fatto tanto in questo senso, ma bisogna attualizzarlo alla situazione di oggi. Abbiamo fatto progressi importanti nella fascia dei bambini e degli adolescenti. Manca ancora qualcosa di simile nella fascia giovanile, forse la più sofferente, la più disorientata. Stiamo puntando su “poli formativi” nelle cittadelle dell’Opera, sulla formazione dei formatori e sulla definizione di linee più concrete per il progetto».
Negli ultimi 5 anni quale situazione vi ha impegnato di più?
Maria Voce: «Il “nuovo assetto”. Una rivoluzione non nata a tavolino, ma come risposta a un bisogno, così come faceva Chiara. Il bisogno concreto era la diminuzione dei focolarini della parte maschile, e l’impossibilità quindi di andare avanti con tutti questi focolari. La soluzione è stata quella di “aprire” le porte del focolare, sia per chiamare altre vocazioni a dare una mano nel portare avanti l’Opera, sia per allargare lo sguardo, dal particolare di una determinata zona geografica alle esigenze di tutto il mondo. Saremo sempre pochi e piccoli, ma se ci aiutiamo possiamo fare di più. Il motivo iniziale è stato questo, poi negli anni ci siamo resi conto che è stata un’ispirazione dello Spirito Santo. Oggi vediamo che questa azione ha allargato i cuori: non è quindi una risposta organizzativa, ma un modo per rispondere alla nostra chiamata all’ut omnes, il “che tutti siano uno” chiesto da Gesù al Padre. Per rispondere a questa vocazione, dobbiamo guardare alle esigenze di chi ci sta vicino, come Chiara ci ha insegnato, ma contemporaneamente pensare che stiamo facendo qualcosa per tutta l’umanità. All’inizio qualcuno è rimasto disorientato, ma il fatto di abolire le barriere, di pensare a “zone” più grandi (composte magari di varie nazioni), aiuta a tenere lo sguardo fisso sull’ut omnes. È un processo in corso. Negli anni dovremo trovare nuove forme per portare avanti il nostro obiettivo, per guardare più lontano, per andare oltre. Ogni “zona” deve cercare il modo migliore di farlo. In questo ci aiutano i mezzi di comunicazione, come per esempio le conference call, ma soprattutto una maggiore larghezza di cuore. È un processo che ci impegna, ma sta già dando frutti».
Jesús Morán: «Il “nuovo assetto” è una delle grandi ispirazioni di Emmaus, in fedeltà creativa alla governance che Chiara aveva pensato già nei primi tempi, quando vedeva l’Opera organizzata secondo i 5 continenti. Si tratta di riprendere quell’ispirazione e attualizzarla oggi».
L’intervista continua nel prossimo numero di Città Nuova