Una domenica dopo la separazione
«Elena sta giocando con mia sorella ed è un po’ che la guardo e penso che queste cose non potrà averle come le ho avute io e mi chiedo se si può crescere felici senza. Senza volare con i piedi per aria mentre i tuoi genitori dicono olé e si guardano felici. Sono stata io ad andare via di casa e lasciare suo padre e mi angoscia il pensiero che, quando sarà grande, non me lo perdonerà. Mi accuserà di essere stata egoista, ne sono sicura.
Eccola, viene verso di me.
«Mamma, voglio vedere papà. Possiamo invitarlo a cena stasera?». «No, Elena. Amore… magari un’altra volta… Sei stata con lui ieri».
Ho cercato di abbracciarla ma se n’è andata, si è seduta sul divano e ha acceso la TV.
I primi giorni mi chiedeva la stessa cosa continuamente, è stato un inferno, una delle esperienze più dure della mia vita… Ho pensato molte volte di tornare a casa da lui, ma ho visto anche che la piccola aveva smesso di avere i terribili incubi che la assediavano prima, quando ci sentiva litigare.
All’inizio riuscivamo a tenere bassa la voce, a rimandare la discussione a quando la bambina sarebbe andata a letto, ma gli ultimi tempi spesso finivamo per scontrarci davanti a lei oppure la svegliavamo urlando.
Ho deciso di andarmene di casa quando mi hanno chiamato da scuola. La maestra è stata senza pietà con me e dopo avermi illustrato le doti di mia figlia dicendo che nei primi mesi dell’anno era stata un punto di riferimento per il gruppo classe, ha iniziato la disamina di quello che è successo dopo, in particolare negli ultimi mesi. Ha fatto un lungo discorso e poi si è fermata un attimo e ha detto:
«La bambina è andata lentamente spegnendosi». Non ha aggiunto altro. Io sono rimasta a guardarla un po’ e poi ho capito che dovevo dire la verità, che il problema sono i suoi genitori che non vanno più d’accordo e lei mi ha fatto una domanda che non mi aspettavo: «Vi state facendo aiutare?». Ho scosso il capo perché mio marito non ha mai voluto parlare dei fatti nostri con altri. A quel punto a lei sono venuti gli occhi lucidi e prima di andarsene mi ha parlato senza guardarmi negli occhi: «Sua figlia è una bambina speciale, di quel genere di bambini che vengono definiti “indaco”. Non lasci che si spenga, non se lo merita».
[…]
Perché non ho insistito per farci aiutare? Dovevo essere meno remissiva con Carlo quando eravamo ancora in tempo, quando c’era margine di manovra.
Sono tornata a casa e ho cercato su internet “bambini indaco”. Non ne avevo mai sentito parlare prima. Dicono che hanno un’aura intorno al corpo diversa dagli altri, di colore indaco, una cosa un po’ new age… Però leggendo le caratteristiche di questi bambini speciali ho rivisto mia figlia: creativa, empatica, intuitiva, come una calamita per gli altri.
[…]
Quando è finito il cartoon ha spento la TV e si è messa in piedi di fronte a me: «Papà non è cattivo come dici tu. È difficile ma non è cattivo». Ha girato le spalle e se n’è andata. Aveva gli occhi di un cerbiatto abbandonato e io mi sono sentita morire e mi sono chiusa in bagno a piangere e non riuscivo più a smettere. Ho consumato un rotolo di carta igienica per asciugarmi le lacrime che non si fermavano, non si fermavano… Alla fine ha bussato mia sorella e ho dovuto aprire la porta. Mi ha accarezzato e mi ha suggerito di lavarmi il viso e di aspettare un attimo prima di uscire per non farmi vedere in quello stato dalla bambina. Fino ad ora non ha fatto commenti sulla mia decisione di lasciare Carlo. Si è resa disponibile ad accogliermi in casa sua e non ho ancora capito se approva o no la decisione che ho preso.
[…]
Allora mi è venuta la tentazione di spiegare alla bambina le mie ragioni, ma per fortuna sono riuscita a trattenermi dal raccontarle i particolari delle difficoltà che ho con Carlo, sarebbe stato come mettere il dito nella sua piaga e toglierlo dalla mia e almeno questo posso risparmiarglielo. Ho iniziato anche a leggere libri che riguardano le famiglie che si rompono, ma poi mi sono stancata perché certe cose ormai le sanno tutti, non c’è bisogno di leggerle sui libri.
Nella classe di mia figlia la metà dei bambini ha i genitori separati e io del resto non odio Carlo e il fatto che non possiamo più stare insieme non significa che Elena non debba avere un papà; ne ha diritto e io non ho intenzione di negarglielo. Questo il pensiero razionale perché, se sono onesta con me stessa, rabbia verso Carlo ne ho tanta anche se non ho il coraggio di chiamarlo odio, ma è anche questo, certe volte è anche questo… Prima l’ho amato e poi l’ho combattuto e alla fine ho iniziato a odiarlo e non riuscendo più a sopportare l’amarezza che portavo dentro l’ho lasciato, perché non avevo mai provato un sentimento così basso, non ho mai odiato nessuno e non voglio cominciare adesso e non ci voglio avere a che fare con queste cose qui. Perciò ho creato la voragine in cui mi trovo dentro, per scampare dall’odio».
Da Fernando Muraca, DIECI GIORNI, Storia di un amore (Città Nuova, 2015)