Una crisi veritiera
Dieci mesi fa Città nuova, commentando a caldo le elezioni politiche, scriveva così: La musica cambia al Senato: pur avendo una maggioranza più evidente di quella del centro-sinistra alla Camera, il centro-destra riceve 155 seggi contro 154 del centro-sinistra; e quest’ultimo potrebbe ottenere una risicata maggioranza solo grazie al voto degli italiani all’estero e ai senatori a vita. In queste condizioni, non ci potrà essere stabilità; la legislatura al Senato si potrà facilmente trasformare in un lungo calvario. E proseguiva: Non si capisce come il centro-sinistra abbia potuto esultare alle 3 di mattina per la vittoria alla Camera, senza una parola per la difficile situazione al Senato. Se questo oscuramento delle difficoltà e travisamento della realtà è il preludio di quanto ci aspetta nel corso della legislatura, la situazione è davvero triste. Come cittadini, non abbiamo alcun bisogno di esultanze di piazza, ma che ci sia il rispetto della verità e che essa ci venga sempre detta. Purtroppo, in questi dieci mesi, uno degli aspetti che hanno accompagnato la vita del governo Prodi è stata la continua ed equivoca tensione tra le istituzioni e la piazza, così che spesso qualcuno che stava al governo si tirava fuori per farsi piazza, e poi ritornare ad assumere veste istituzionale, in un gioco delle parti e degli specchi che serviva per allontanare le decisioni e le assunzioni di responsabilità. La verità, in questi giorni, ci è stata addirittura gridata: il centro-sinistra non ha una maggioranza degna di tale nome al Senato, dal punto di vista numerico; ma la maggioranza non manca soltanto nei numeri: i dieci mesi che sono passati non hanno portato ad una coesione sostanziale dentro la coalizione. Questo articolo viene scritto dopo che il presidente Napolitano ha rinviato il governo di Romano Prodi alle Camere, prima che queste abbiano votato la fiducia, e mentre il centro-sinistra sta cercando di convincere i propri astenuti a rinsavire, e dà la caccia a singoli senatori del centro-destra per far loro cambiare casacca. È possibile che il governo ottenga la fiducia, ma si impongono due domande: è accetdel tabile che la stabilità della guida politica di un intero Paese dipenda dai voti ottenuti convincendo alcuni senatori a voltare le spalle ai cittadini che li hanno votati? O dipenda dalle condizioni di salute di un manipolo di senatori a vita ultra-ottantenni? La questione ideologica In primo piano troneggia la questione ideologica, rappresentata dal fatto che due senatori appartenenti all’area della sinistra radicale hanno avuto, con la loro astensione, un ruolo determinante nel mettere sotto il governo. Il comportamento dei due senatori non è un fatto isolato, ma esprime una posizione ideologica presente all’interno della coalizione di centro-sinistra; e vi rimane, ma soffre, e fa soffrire la coalizione. Gli attriti con la linea di Prodi sono emersi in più occasioni; facciamo qualche esempio. La linea ad alta velocità che collega Torino a Lione, e altre infrastrutture, vanno fatte secondo il Professore, se si vuole che le grandi linee commerciali della crescita economica passino per l’Italia; altrimenti, tali linee andranno altrove e non si bloccherebbe la crescita generale, ma solo quella italiana. Vanno fatte in dialogo con la popolazione, eppure esponenti di forze appartenenti alla maggioranza sono contrari all’orientamento del governo, e partecipano alle proteste. Problema analogo è sorto per la base militare statunitense a Vicenza: è difficile spiegare come si possa far parte del governo e, contemporaneamente, manifestare contro la sua decisione di ampliare la base. Sono due esempi di casi nei quali la decisione politica può essere difficile, ma va trovata, utilizzando le risorse della razionalità politica e le regole che discendono da una completa assunzione di responsabilità e dal ruolo. Ma nella maggioranza ci sono forze che si oppongono comunque a tutto ciò che si ispira ad una razionalità che appartiene al sistema e che, anzi, lo rafforza migliorandolo – si tratti di linee ad alta velocità, di pensioni o di schieramenti internazionali -, per il semplice fatto che sono, e lo dicono chiaramente, forze anti-sistema, incapaci, per definizione, di accettare anche una linea fortemente riformista, ma interna al sistema nel quale viviamo e che consiste in una economia capitalistica aperta, strutturata da regole democratiche: nell’insieme, un sistema capace di evolvere verso una sempre maggiore umanizzazione. Per questo gli ideologi bocciano il discorso ritenuto serio di un ministro considerato serio e di sinistra, Massimo D’Alema, che espone una prospettiva di politica estera in continuità con la tradizione del Paese, ma attiva e propositiva nei confronti degli alleati, anche i più forti. Il commento migliore, a mio avviso, è di Valentino Parlato, tra i fondatori del Manifesto e comunista coerente: La sinistra deve decidere che cosa vuole essere: dire se è contro tutte le guerre, come sostiene la sinistra radicale, oppure se è contro le guerre ma vuole governarle (…). Si scelga cosa vogliamo essere. Una sinistra di governo che cerca di gestire situazioni difficili come l’Afghanistan. Oppure una sinistra di opposizione, che poi sarebbe ciò che penso io. È ciò che pensa lui; e proprio per questo, di conseguenza, non è al governo: se stai in una formazione, devi seguirne le regole. Inoltre, nelle democrazie che funzionano, non governa la piazza, ma il popolo, due cose del tutto diverse. E il popolo, proprio per garantirsi la reale possibilità di governare, costruisce delle regole – chiare – di rappresentanza e di esercizio del potere. La crisi del governo Prodi ha messo in evidenza che una parte di queste regole oggi, in Italia, o non è chiara, o non funziona, o non corrisponde alle esigenze della democrazia. Per questo ancora oggi c’è chi, in età adulta e senatoriale, cade nella vecchia trappola ideologica di pensare di essere il popolo, pur essendo solo la piazza, di pensare di essere il tutto, pur essendo solo una piccola parte. I mangiarospi La crisi ha ottenuto l’effetto di richiamare all’ordine queste minoranze fortemente ideologizzate, materializzando uno spauracchio per loro terrorizzante: se la sinistra radicale continua per questa strada, riporterà Berlusconi (messo al riparo da ogni problema di successione) al governo. Perché ciò non accada, l’ala estrema della coalizione si è fatta rimettere in riga, sottoscrivendo 12 punti che Romano Prodi ha loro imposto come condizione per continuare: dentro, vi sono rospi autentici da ingoiare: l’alta velocità per i Verdi, l’Afghanistan per Comunisti italiani e Rifondazione, ecc. Mangiamo i rospi, si sono pubblicamente impegnati. Pur augurando buon appetito, va sottolineato che, alla luce dei fatti, il motivo – l’unico – che è attualmente comune a tutta intera la coalizione di centro-sinistra, è impedire che governino gli altri.Non è troppo poco per giustificare un governo? Non c’è stato, infatti, alcun approfondimento: per onestà, bisogna dire che i 12 punti che i partiti dell’Unione hanno sottoscritto sono interpretabili secondo prospettive diverse, proprio come numerose parti del programma, che già avrebbe dovuto mettere tutti d’accordo, ma non è riuscito a farlo.Non sembra che i 12 punti siano un reale passo avanti nella concordia della coalizione: sembrano piuttosto un modo per esprimere anche simbolicamente la decisione di mettersi in riga, l’accettazione, da parte dei partiti e dei loro capi, di tacere lasciando la parola ad un portavoce unico, attraverso il quale il presidente Prodi parlerà a nome di tutta la coalizione. Il che, a dire il vero, avrebbe dovuto essere fin dall’inizio. Ma non si potrà mettere la sordina in eterno al dibattito; e appena riprenderanno i discorsi politici – e forse già nei prossimi giorni, quando Prodi dovrà spiegare meglio i 12 punti -, si costaterà che la distanza ideologica è rimasta intatta. La riforma elettorale Bisogna far sì, allora, che le forze maggiori di una coalizione, che hanno una effettiva comunanza di programma politico – e sempre ammesso che ce l’abbiano, cosa niente affatto scontata, da una parte e dall’altra -, possano prendere le decisioni più importanti senza sottostare a ricatti. Si tocca, in questo modo, non solo le regole interne alle coalizioni, ma, soprattutto, il sistema elettorale. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel suo comunicato a conclusione delle consultazioni, ha spiegato di avere cercato la realizzabilità di ipotesi di allargare la maggioranza, allo scopo di far fronte alle scadenze politiche più urgenti e in particolare la revisione della legge elettorale: queste ipotesi non sono state abbastanza condivise e non se ne è fatto nulla.Ma ritorna subito dopo sulla questione, spiegando che non ci sono le condizioni per sciogliere le Camere, proprio perché siamo in presenza della necessità prioritaria di una modificazione del sistema elettorale. Se si votasse subito, in altre parole, è fortemente probabile che si ripresenterebbe una situazione analoga, magari con un governo di centro-destra, ma con una maggioranza similmente risicata al Senato. Bisogna ricordare che questa situazione non si è prodotta per caso, ma è stata voluta dalla maggioranza di centro-destra nella scorsa legislatura; lo scopo – come fu esplicitamente spiegato – era quello di ridurre i margini di sconfitta o addirittura di cercare di rovesciare i pronostici delle elezioni politiche dell’aprile 2006, pronostici sfavorevoli al centro-destra. La riforma danneggiò Prodi fin dalla campagna elettorale; egli aveva lavorato a lungo nella prospettiva del maggioritario, investendo molto nel processo unitario del centro-sinistra; la riforma proporzionale faceva ritornare in primo piano i singoli partiti. Città nuova scrisse allora: Per il centro-sinistra la riforma è una mela avvelenata: anche in caso di vittoria, si troverebbe con una coalizione fortemente frammentata, poiché ognuno dei partiti che la compongono sarebbe dotato di forza propria, non avendo più bisogno degli altri per eleggere i propri deputati. La frammentazione è deleteria, anche perché molto più visibile, per chi è al governo. Oggi, coloro che votarono la legge potrebbero dire: Missione compiuta; a prezzo, come vediamo, dell’instabilità del governo: non solo quello attuale, ma anche quello di centro-destra che potrebbe succedergli; il danno non è per l’uno o per l’altro, ma per l’Italia. Che stupida mascalzonata! Cambiare la legge elettorale è dunque indispensabile. I cittadini devono chiederlo alleandosi, per questo, con la presidenza della Repubblica: una alleanza istituzionale tra la massima carica della Repubblica e i detentori del potere sovrano. La legge attuale nega, di fatto, il diritto ad un governo stabile, e impedisce ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti: si votano i partiti ma non le persone. Cittadini o vassalli L’anno scorso arrivarono a Città nuova alcune proteste – da destra e da sinistra – perché il nostro giornale – nonostante le pressioni del parroco e del farmacista, che non mancano mai – non aveva indicato per chi votare, e aveva sottolineato invece le incoerenze presenti in entrambe le coalizioni (nessuna poteva invocare di dovere essere votata) e le limitazioni alla sovranità dei cittadini che si erano andate accumulando. Oggi questi protestatari sono serviti: non può governare né la destra né la sinistra. Bisogna rendersi conto, una volta per tutte, che l’essere cittadini e l’usare pienamente dei propri diritti politici viene prima dell’essere di destra o di sinistra: se non siamo cittadini sovrani, ogni nostra appartenenza ulteriore è un vassallaggio ai partiti, non una partecipazione! Che legge fare? Apriamo un vero e partecipato dibattito pubblico sull’argomento. Certamente è importante che anche i piccoli partiti abbiano una rappresentanza parlamentare; questo vale anche per le minoranze anti-sistema: la democrazia deve assicurare loro almeno il diritto di libera espressione e tenere aperta la possibilità di una loro evoluzione interna al sistema. Ma il sistema democratico deve difendere sé stesso, proteggendo il principio che le decisioni vengano prese dalla maggioranza. Per questo i meccanismi elettorali devono fare in modo che si creino maggioranze chiare e che ci sia un corretto equilibrio all’interno delle coalizioni: il sistema deve garantire anche ai piccoli di potersi esprimere e di poter crescere, ma si tutela impedendo ai piccoli partiti di governare finché sono minoranza. Altrimenti si creano le situazioni inaccettabili che viviamo oggi, nelle quali un intero Paese è messo in scacco da una esigua minoranza, per il fatto che questa può condizionare la coalizione cui appartiene. Altrettanto importante, però, è ricordare che il pluralismo non deve esistere solo a livello parlamentare; esso infatti è solo una conseguenza e una espressione del pluralismo delle idee e delle culture che esiste nella società. Se un cittadino sente l’esigenza di impegnarsi politicamente, non è detto che debba cercare di candidarsi per la prima elezione che capita: l’impegno politico è prima nella società che nelle istituzioni, le quali sono figlie della società, prima di governarla. Se la dimensione politica abbandona la società – anche perché i cittadini si disinteressano – e si autoconfina a livello delle istituzioni, la politica stessa si atrofizza e si alimentano le storture. È in questo contesto, in cui i partiti dominano le istituzioni, che un parlamento asfittico può cominciare a provare nostalgia per la piazza e la piazza può cominciare a volere il potere, facendo, in pubblico, quello che le lobby fanno in privato. Cominciamo a fare chiarezza, partendo da dove la politica inizia: dall’impegno dei cittadini.