Una comunità dice “no” alla camorra
Al solo nominarlo il principio di fraternità sembra portarsi dietro un carico quasi eccessivo d’idealità. Chi ne parla sembra passare per buonista, al più naïf, comunque uno fuori del tempo, visto che sembra richiamare ai più, non il mondo scintillante della globalizzazione di oggi, ma piuttosto una certa aria stantia e retrò di sacrestia.
E invece è così che il cerchio si chiude. Per averne la prova bisogna forse andare a Pomigliano d’Arco, stringere la mano a Salvatore Cantone e sedersi ad ascoltare la sua storia davanti a un buon caffè napoletano e a una fragrante sfogliatella.
Ha superato i cinquant’anni, è sposato e ha due figli. Come si sa, nel suo paese tutto gira attorno alla Fiat e anche lui comincia a lavorare nell’indotto. Mette su una società d’impiantistica industriale, le cose vanno piuttosto bene, tanto che il numero di dipendenti cresce e apre cantieri anche lontano dalla Campania. Ma il suo successo non passa inosservato.
La camorra gli mette gli occhi addosso e, nel 2005, si presenta nei suoi uffici. Un tale mai visto prima, come fosse un ufficiale di polizia giudiziaria, gli chiede di presentarsi quanto prima a un indirizzo ignoto, per incontrare una persona, purtroppo ben conosciuta. Si tratta di un capo clan che da casa non può muoversi, visto che è agli arresti domiciliari.
Cantone non è nato ieri e sa già cosa gli verrà chiesto. «Arrivo sul posto – racconta –. Ci sono porte blindate e telecamere, a colpirmi è però una grossa Madonna a grandezza naturale sotto la quale vedo santini e foto di defunti. È la moglie a ricevermi, poi arriva lui, il boss: un metro e sessanta, in canottiera rossa con un grande tatuaggio di Maradona e una pesante catenina d’oro con il volto di Gesù. Appoggia la pistola sul tavolo e mi dice: “Per ora devi darmi ventimila euro. Sai, dobbiamo mantenere la struttura, i nostri che sono in carcere”».
Cantone non solo non vuole, ma neanche può permettersi di pagare così tanto. Ma, con quell’arma sotto gli occhi, non può che intavolare una trattativa. «Te ne do cinquecento», «No, di più», si sente ribattere.
Si arriva a un accordo: 1500 euro subito. Il boss lo accompagna alla porta, non prima di essersi ossequiosamente inginocchiato davanti alla statua della Vergine.
«È la prima volta che mi viene chiesto il pizzo – confida Salvatore – e, anche se contrario, accetto per evitare problemi anche alla mia famiglia e ai miei dipendenti».
Il giorno fissato consegna la busta. In un misto di sollievo, rabbia e rassegnazione, vede il parente del capo andar via soddisfatto con il frutto del pizzo. Lui prega e spera che sia l’ultima. Ma così non è.
(…)
Salvatore alza la testa e dice no. «Decido di non dare soldi a chi vive del lavoro degli altri, forte anche di un percorso di fede che si riflette sul mio modo di vivere. Non posso cedere». Qualche mese tranquillo, poi quelli tornano. «Ha detto lo zio di mandare qualcosa di soldi, come voi già sapete», lo minacciano. «E io non pago», ribatte lui.
Ma partono le ritorsioni. Un furto da 100 mila euro che mette in ginocchio l’azienda: gli portano via le attrezzature che servono per lavorare, è concreto il rischio che tutto vada per aria.
«Mentre discuto con mia moglie e mio fratello – ricorda –, guardo la foto delle mie figlie e decido di denunciare. Il clima è pesante. Ho paura di ritorsioni, perché sto mettendo in pericolo i miei cari e i miei dipendenti, ma ho sempre vissuto onestamente, non posso cedere». Parla e partono gli arresti.
(…).
Ed è a questo punto preciso della sua storia che Salvatore, nel raccontare, comincia a usare il pronome “noi”.
Sono solidali con lui le forze dell’ordine, a dargli sostegno ci sono la moglie e i figli, a dargli coraggio il gruppo di famiglie che frequenta in parrocchia, lì dove ha modo di incontrare Tano Grasso, anima dell’antiracket in Italia, che fa svoltare definitivamente la sua vita dal vicolo cieco della solitudine alla piazza di una comunità, che lo sostiene nel momento cruciale: il processo.
Dei quattro testimoni attesi, due non si presentano nell’aula bunker di Poggioreale.
«Sono nervoso, i camorristi mi guardano da dietro le sbarre – ricorda lui –, poi il pm mi chiede chi sia colui che ha preteso il pizzo. Io prego la Madonna di aiutarmi, poi alzo il dito, lo indico e comincio a parlare».
Circondato dagli amici del coordinamento antiracket, non ha più timori. Il processo finisce con una condanna esemplare e a Pomigliano D’Arco nasce la prima organizzazione per la legalità.
Dal libro La legalità del noi, le mafie si sconfiggono solo insieme, di Gianni Bianco e Giuseppe Gatti (Città Nuova, 2013)