Una cena a Giaffa

Una storia d'amore che si intreccia col triste destino toccato agli ebrei durante la Shoah. Per ricordare tutte le vittime, oggi che ricorre la commemorazione della Giornata della memoria
ph Pexels

Yoram, un collega israeliano. Che diventò presto un amico. Una sera, durante una cena a Giaffa, mi raccontò di suo padre. Di cui non ricordo il nome… Siamo a fine anni ’20 del secolo scorso, in Polonia. Suo padre s’era laureato ingegnere, a quei tempi una cosa non da poco. La loro era una famiglia di benestanti, agiati. Erano ebrei, ma laici. La religione non aveva alcun posto nella loro vita, della loro fede meno d’un vago ricordo. Un giorno suo padre prese il treno assieme al fratello, dovevano recarsi in una città per lavoro. Lungo il tragitto, a una stazione, salì una ragazza che si sistemò nella loro carrozza. Lui ebbe un sussulto. Fu folgorato all’istante dalla sua bellezza. Gli sbucò in testa, da chissà dove, ma chiara come la luce del sole a mezzogiorno, una sentenza: «Sarà mia moglie». Lo disse al fratello. Che si mise a sghignazzare. Ma lui non se ne curò. Quando la ragazza accennò a scendere dal treno, decise di seguirla. Disse al fratello: «Continua tu. Io scendo qui. Ci vediamo a casa». «Sei diventato matto!», rise il fratello. Lui scese. Chiese alla gente che bazzicava in quella piccola stazione di provincia chi fosse la ragazza. Gli dissero che era la figlia del rabbino, un tipo famoso per la sua saggezza e il fervore della sua fede. Gente da ogni dove veniva per consultarlo, esporre i loro casi, chiedere un consiglio, una benedizione. Riceveva il pubblico un giorno alla settimana, il giovedì, e di solito si creava una lunga fila di gente per parlare con lui. Il giovane aveva deciso. Il prossimo giovedì sarebbe andato anche lui.

Tornato a casa, il fratello lo prese in giro: «Una ragazza d’una famiglia religiosa! Figlia d’un rabbino! Ti sei fumato il cervello!». Il giovedì prese il treno, scese a quella stazioncina, si mise in coda con gli altri. Quando fu di fronte al rabbino gli disse senza preamboli: «Ti chiedo la mano di tua figlia». Il rabbino tutto s’aspettava da quel forestiero meno che una cosa del genere. «La conosci?». «L’ho vista sul treno». «E perché vorresti sposarla?». «È molto bella. So che sarà mia moglie». Il rebbe cercò di rispondere nel modo più pacato possibile, disturbato però da tanta audacia e sicurezza. «Pensaci bene», gli disse. «Non ho bisogno di pensarci», rispose il giovane. «Sappi ‒ disse il rabbino ‒ che se vuoi sposare mia figlia devi essere pronto a soffrire molto». «Sono disposto a qualunque cosa, anche a soffrire». «Ti chiedo comunque di pensarci su». Lo congedò. Il giovane tornò a casa. Non aveva alcuna intenzione di pensarci su.

Passò una settimana le cui ore gli parvero lunghe come anni bisestili. Dopo sette giorni prese il treno. Fece la fila con gli altri. E quando si trovò di fronte a lui gli disse: «Eccomi. Ci ho pensato. Sono qua per chiedere la mano di tua figlia». «Bene» disse il rebbe, che in quei giorni aveva parlato con la figlia e, caso sorprendete, anche lei su quel treno aveva avuto la stessa intuizione del giovane. Voleva sposarlo. «Ti ho avvertito ‒ disse il rebbe ‒, ti costerà molta sofferenza, ma se è questo che vuoi ti concedo la sua mano». Quando comunicò la cosa alla famiglia, si gridò allo scandalo. Loro figlio s’univa in matrimonio a una ragazza povera, senza istruzione! E per di più, d’una famiglia religiosa! Il loro figlio ingegnere avrebbe fatto parte di quella banda di ignoranti superstiziosi! Ma non era tutto lì. Il peggio lo vennero a sapere poco dopo. Dopo le nozze i due sarebbero partiti per la terra d’Israele. Pionieri. Non c’era ancora lo Stato d’Israele a fine anni ’20. Si sposarono e fecero aliyah[1]. Andarono a vivere in una comune, un moshav. Lui, l’ingegnere, fu messo a spaccare pietre. Ma loro due erano felici, proprio felici. Dopo qualche tempo arrivò da quelle parti la ditta Shell, del petrolio. Il giovane si presentò per chiedere lavoro. Lo assunsero subito, non come ingegnere ma come camionista.

Dalla famiglia in Polonia, solo qualche messaggio laconico. Dopo un paio d’anni il fratello venne a trovarlo. Per chiedergli di rinsavire e tornare con lui in Polonia. Fece il viaggio in nave, in prima classe. Sbarcò vestito in frac. Il padre di Yoram gli andò incontro con la sua tuta unta, di camionista della Shell. Gli disse che lì era felice, che amava sua moglie, e adesso c’erano i figli. Suo fratello lo guardò con freddezza. «Sei proprio matto». Non uscì neppure dal porto. Fece marcia indietro e tornò sulla nave. Se ne andò com’era venuto. Da quel giorno, dalla sua famiglia più nessuna notizia. Pochi anni dopo fu travolta dalla furia nazista. Il silenzio divenne glaciale. Tutti sterminati. Era questo che intendeva il rabbino quando gli diceva d’essere pronto a soffrire molto? Che i suoi non li avrebbe mai più rivisti? Che sarebbero stati uccisi? Oppure si riferiva alle sofferenze e ai conflitti che avrebbero segnato i loro anni in Terra d’Israele?

La cena era finita. Da una terrazzina di Giaffa guardavamo il mare. Il sole tramontava. Yoram mi disse: «Ci vuole un po’ di pazzia per cogliere al volo le rare occasioni che ti offre la vita. Entusiasmo e tenacia. Ma che sapore avrebbe la vita se non si rischia?». In quei giorni stavo leggendo La vita davanti a sé, di Romain Gary. Mentre ascoltavo Yoram, mi veniva in mente l’esergo di quell’incredibile libro: Essi mi hanno detto: «Sei diventato pazzo per Colui che ami». Io ho detto: «La vita ha sapore solo per i pazzi» (Yafi’i, Raudh al rayahin).

[1] In ebraico “ascesa”: Termine che ha indicato, dopo la diaspora ebraica, l’immigrazione nei luoghi santi dell’ebraismo a scopi religiosi. Dalla fine del 19° sec. indica, nel sionismo, l’immigrazione in Palestina.

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