Una catena per “ripagare”
Dal cinema alla realtà: la storia di un donatore di rene raccontata da Living City
Il tema del film Un sogno per la vita – Pay it forward è diventato una storia vera. Matt Jones, trentenne di Petoskey (Michigan, Usa), con una motivazione che andava ben oltre l’emulazione del blockbuster hollywoodiano, ha deciso che – nonostante cinque figli ed un lavoro impegnativo – poteva fare di più. Così questo «ragazzo dal cuore grande» – come l’ha definito la rivista People – ha donato un rene ad un perfetto sconosciuto. Il suo gesto ha messo in moto una catena di “restituzione” (pay it forward significa, appunto, rispondere ad un atto di generosità) che ha salvato diverse vite spingendo altri a fare lo stesso.
Secondo la United network for organ sharing, più di 85 mila persone negli Stati Uniti sono in attesa di un trapianto di rene a causa della scarsità di donatori. Sebbene molti abbiano un parente disposto a donare, a volte si pongono problemi di compatibilità che impediscono il trapianto, con conseguenze fatali per i pazienti in fase acuta. Una risposta innovativa a questo problema è stata data dalla Alliance for paired kidney donation, fondata dal dott. Michael Rees dell’università di Toledo (Ohio): un software “abbina” una persona che ha bisogno di un rene con un donatore, generalmente qualcuno che ha a sua volta un parente o un amico nella stessa situazione. Il quale, a sua volta, riceverà il rene da qualcun altro della “rete”: la catena si mette quindi in moto, e sinora nessuno l’ha bloccata.
Barbara Bunnell di Phoenix, in Arizona, è stata la prima beneficiaria di questa catena. Ha ricevuto il rene di Matt Jones il 18 luglio del 2007; appena otto giorni dopo suo marito Ron è volato a Toledo per donare un rene ad Angie, una donna di 32 anni che non aveva mai conosciuto prima. La madre di Angie, incompatibile con la figlia, ha poi donato un rene ad un’anziana dell’Ohio: e quattro anni e mezzo dopo la catena prosegue. «Ho scoperto verso i 35 anni – racconta Barbara – di avere la stessa malattia genetica di mia nonna, che mi avrebbe portata all’insufficienza renale. Io e mio marito siamo venuti a conoscenza di questa catena, di cui siamo diventati il primo anello». «All’inizio ero riluttante a compiere un gesto simile verso una sconosciuta invece di Barbara – ammette Ron –, ma quando ho incontrato Angie, mi sono convinto che era la cosa giusta da fare». Nessun obbligo fino all’ultimo: «Il giorno dell’intervento – ricorda – il medico mi ha detto che, se mi fossi tirato indietro, nessuno avrebbe saputo il perché». Ma non l’ha fatto. Ha invece risposto: «Se qualcosa va storto, voglio che tutti i miei organi vengano donati». Fortunatamente non è accaduto, ma è stato sufficiente a commuovere il chirurgo. Gli anelli della catena, poi, rimangono in contatto: «Abbiamo quattro persone in più nella nostra famiglia adesso – afferma Ron – e ce ne sono poi molti altri che incontriamo al raduno annuale. Sentiamo che tra di noi c’è un legame speciale».
All’inizio Matt Jones, l’iniziatore della catena, non aveva molto sostegno da parte della famiglia: comprensibilmente, si chiedevano che cosa sarebbe successo se in futuro fosse stato uno di loro ad aver bisogno di un rene. Ma Matt rispondeva: «In tal caso, spero qualcun altro si farà avanti. Ora tocca a me». Non se n’è pentito, e la descrive come un’esperienza che gli ha cambiato la vita. Così come è cambiata quella di Barbara e Ron e dei loro figli: «Questo è stato un forte segno di speranza per loro – affermano – perché anche loro hanno il 50 per cento di probabilità di avere la stessa malattia. Vogliamo che non ne abbiano paura, e essere d’esempio».
La vicenda ha avuto grande risonanza mediatica: «Molti hanno il desiderio di fare qualcosa di bene in questo mondo – afferma Barbara – e questa è un’opportunità, ma non è l’unica. Alcuni amici ci hanno portato del cibo durante la convalescenza, e mi chiedevo come avrei potuto ripagarli: ma poi, molto semplicemente, ci siamo a nostra volta presi cura di altri durante il decorso post-operatorio».
Secondo la United network for organ sharing, più di 85 mila persone negli Stati Uniti sono in attesa di un trapianto di rene a causa della scarsità di donatori. Sebbene molti abbiano un parente disposto a donare, a volte si pongono problemi di compatibilità che impediscono il trapianto, con conseguenze fatali per i pazienti in fase acuta. Una risposta innovativa a questo problema è stata data dalla Alliance for paired kidney donation, fondata dal dott. Michael Rees dell’università di Toledo (Ohio): un software “abbina” una persona che ha bisogno di un rene con un donatore, generalmente qualcuno che ha a sua volta un parente o un amico nella stessa situazione. Il quale, a sua volta, riceverà il rene da qualcun altro della “rete”: la catena si mette quindi in moto, e sinora nessuno l’ha bloccata.
Barbara Bunnell di Phoenix, in Arizona, è stata la prima beneficiaria di questa catena. Ha ricevuto il rene di Matt Jones il 18 luglio del 2007; appena otto giorni dopo suo marito Ron è volato a Toledo per donare un rene ad Angie, una donna di 32 anni che non aveva mai conosciuto prima. La madre di Angie, incompatibile con la figlia, ha poi donato un rene ad un’anziana dell’Ohio: e quattro anni e mezzo dopo la catena prosegue. «Ho scoperto verso i 35 anni – racconta Barbara – di avere la stessa malattia genetica di mia nonna, che mi avrebbe portata all’insufficienza renale. Io e mio marito siamo venuti a conoscenza di questa catena, di cui siamo diventati il primo anello». «All’inizio ero riluttante a compiere un gesto simile verso una sconosciuta invece di Barbara – ammette Ron –, ma quando ho incontrato Angie, mi sono convinto che era la cosa giusta da fare». Nessun obbligo fino all’ultimo: «Il giorno dell’intervento – ricorda – il medico mi ha detto che, se mi fossi tirato indietro, nessuno avrebbe saputo il perché». Ma non l’ha fatto. Ha invece risposto: «Se qualcosa va storto, voglio che tutti i miei organi vengano donati». Fortunatamente non è accaduto, ma è stato sufficiente a commuovere il chirurgo. Gli anelli della catena, poi, rimangono in contatto: «Abbiamo quattro persone in più nella nostra famiglia adesso – afferma Ron – e ce ne sono poi molti altri che incontriamo al raduno annuale. Sentiamo che tra di noi c’è un legame speciale».
All’inizio Matt Jones, l’iniziatore della catena, non aveva molto sostegno da parte della famiglia: comprensibilmente, si chiedevano che cosa sarebbe successo se in futuro fosse stato uno di loro ad aver bisogno di un rene. Ma Matt rispondeva: «In tal caso, spero qualcun altro si farà avanti. Ora tocca a me». Non se n’è pentito, e la descrive come un’esperienza che gli ha cambiato la vita. Così come è cambiata quella di Barbara e Ron e dei loro figli: «Questo è stato un forte segno di speranza per loro – affermano – perché anche loro hanno il 50 per cento di probabilità di avere la stessa malattia. Vogliamo che non ne abbiano paura, e essere d’esempio».
La vicenda ha avuto grande risonanza mediatica: «Molti hanno il desiderio di fare qualcosa di bene in questo mondo – afferma Barbara – e questa è un’opportunità, ma non è l’unica. Alcuni amici ci hanno portato del cibo durante la convalescenza, e mi chiedevo come avrei potuto ripagarli: ma poi, molto semplicemente, ci siamo a nostra volta presi cura di altri durante il decorso post-operatorio».
(traduzione di Chiara Andreola)
Nella foto: Matt Jones e Barbara Bunnell