Una Aida “nuovissima”
Per gli appassionati o i nostalgici dell’Aida gloriosa, centrata sulla scena magniloquente del Trionfo con balletti annessi, l’opera ascoltata e vista a Roma potrà essere sembrata originale o stravagante. Non tanto per la regia onesta di Davide Livermore e i movimenti coreografici – danzatrici dalla gestualità nervosa –, ma per le scene essenziali, con il grande cubo fosforescente su cui passavano i video di immagini e di corpi, molto belle. E soprattutto per la direzione appassionata, coltissima di Michele Mariotti in un lavoro che è apparso rivelato, “nuovo”.
Già, perché l’Aida, commissionata a Verdi con un compenso stratosferico dal kedivè d’Egitto per l’apertura del canale di Suez (18 febbraio 1871) e poi trionfatrice alla Scala, per quanto sia debitrice dello stile “pompieristico” del Grand-Opèra parigino (danze, marce, costumi) e dell’esotismo orientale allora di moda, è una favola meravigliosa di amore in un Egitto sognato, fantasioso, ricreato da una musica che sgorga con passione dirompente e finezze inusitate.
È la storia d’amore fra i giovani che interessa Verdi dal Nabucco al Falstaff, dal 1842 al 1893. Qui il giovane eroe Radames, idealista candido, si innamora della schiava etiope Aida – sensuale, nostalgica, tardoromantica – ma è perseguitato dalla principessa faraonica Amneris invasa da quella gelosia mortifera così presente nelle opere verdiane. La gelosia nei rapporti umani nasce dalla morte dell’anima e porta alla morte, anche se poi Amneris se ne pente, ed il veleno diventa rimpianto amaro (nel privato Verdi era molto geloso, e all’epoca viveva una liaison con il soprano Teresa Stoltz di cui era innamorato, con grande dolore della moglie).
Immancabile in Verdi la figura del padre, il re Amonasro, forte, dominatore della figlia Aida che seduce l’eroe con melodi zigazaganti che sono un film d’amore e gli fanno tradire la patria e finire in carcere e poi condannare a morte.
La storia in fondo è esile, il finale nell’estasi di un mondo migliore è consolatorio sul filo dei violini sovracuti per i quali non c’è bisogno di scomodare Wagner, perché Verdi ne aveva fatto un uso espressivo già ne La Traviata.
Cosa è che rende nuova la rilettura di Mariotti? In primo luogo, la convinzione che le parti trionfali, coreografiche e cerimoniali siano il “contorno” della vicenda amorosa molto intima, fatta esprimere da una orchestra sgargiante ma pure controllatissima a non eccedere. Poi, convincersi e convincerci nei fatti che questa è un’opera di sentimenti, di sfumature, di nuances e di tempi “rubati” che indicano un fluttuare emotivo delicatissimo, struggente anche e disperato, ma pieno di poesia lirica. Infine la comprensione della lotta fra nazioni, così attuale, ma resa con equilibrio intenso tra buca e palco. Rendendola per quello che è, un dolore acuto. Mariotti evidenza ogni strumento – i timpani nel terzetto del primo atto, i corni, l’oboe e il flauto, l’onnipresente clarinetto – con suoni vellutati, come nel notturno del terzo atto, così semplice e innovativo, perché ai geni bastano poche cose per dire qualcosa di nuovo.
Infine, gli interpreti: oltre al coro molto intonato, il Radames corretto di Gregory Kunde, l’Aida lirica di Krassimiura Stoyanova, le belle voci di Amneris (Ekaterina Semenchuck) e di Amonasro (Vladimir Stoyanov).
Il risultato è notevolissimo. Aida appare opera eterea, forte e debole, trascendente nel finale nonostante la religiosità cupa dei sacerdoti, sull’onda fluttuante di un flauto che danza il dolore di Amneris, la vera”sconfitta” della vicenda. Eppure, Verdi non la condanna e chiude con un infinito senso di pace che Mariotti estrae da una orchestra commossa e piana. Da registrare
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